lunedì 2 febbraio 2015

Farmacologia dell'Epilessia



Il termine EPILESSIA definisce un disturbo neurologico cronico caratterizzato dal verificarsi periodico e imprevedibile di CRISI EPILETTICHE, cioè alterazioni transitorie del comportamento conseguenti a una scarica patologica, ipersincrona e ritmica di una popolazione estesa di neuroni cerebrali di tipo eccitatorio che riescono a superare la barriera data invece dai neuroni inibitori.
Poiché l’epilessia può generarsi in qualsiasi punto del SNC nei cosiddetti focus epilettici, cioè punti di partenza della scarica elettrica patologica, di varia origine e non sempre individuabili, le manifestazioni dipenderanno dall’area corticale da cui si origina la scarica, dalle funzioni di questa area e dall’eventuale diffusione (spreading) che avviene quando la scarica elettrica del focus oltrepassa la soglia attivando anche i neuroni circostanti: ad esempio, se il focus coinvolge la corteccia cerebrale fondamentale per la memoria immediata, i movimenti, il linguaggio, la vista, l’udito, l’attivazione darà una convulsione; se, invece, il bersaglio è l’ipotalamo, le ripercussioni si avranno sul sistema autonomo periferico con alterazioni a livello simpatico e parasimpatico, mentre le scariche sul midollo allungato produrranno una perdita di coscienza.
Il 5% di tutte le persone ha almeno una crisi epilettica durante la sua vita, ma non è considerato affetto da epilessia, in quanto la diagnosi implica una tendenza a crisi epilettiche ripetute che si trova nello 0.5% della popolazione.
Per la diagnosi di epilessia è necessaria un'accurata valutazione dei sintomi e della storia clinica, che deve possibilmente comprendere anche le osservazioni dettagliate da parte di terzi, in quanto l'alterazione o la perdita di coscienza spesso precludono una descrizione dei sintomi da parte del paziente stesso. L'elettroencefalogramma (EEG) rileva l'attività elettrica del cervello ed è un'analisi fondamentale nella diagnosi dell'epilessia, perché le alterazioni elettriche, spesso molto indicative, possono essere presenti anche in assenza dei sintomi. Al di fuori delle crisi epilettiche, però, le alterazioni elettriche possono mancare, pertanto un EEG normale registrato al di fuori di una crisi non esclude la diagnosi di epilessia. Altri esami diagnostici includono la risonanza magnetica o TAC cerebrale ed esami di laboratorio, e sono indicati per accertare o escludere cause specifiche.
La classificazione di questa malattia, può essere fatta in base all’eziologia:  si parla di epilessia primaria o idiopatica quando la storia clinica e gli esami diagnostici non rivelano cause per crisi epilettiche ripetute e di epilessia secondaria o sintomatica quando, invece, può essere identificata la sua eziologia (lesioni cerebrali, neoplasie, infezioni, intossicazioni); mentre la maggior parte delle epilessie idiopatiche è infatti dovuta a fattori genetici e metabolici ancora sconosciuti e si manifesta in età infantile o adolescente, una grande parte delle epilessie secondarie si manifesta dopo i 40 anni.
Tuttavia la classificazione clinica è quella maggiormente impiegata e prevede due principali categorie: le crisi (o accessi) parziali e le crisi (o accessi) generalizzate, ciascuna delle quali distinguibili ulteriormente in semplice quando non si ha perdita di conoscenza e complessa quando la perdita di coscienza è immediata.
Le CRISI PARZIALI rappresentano il 60% di tutte le epilessie, hanno origine focale a livello della corteccia, cioè la scarica inizia e generalmente rimane circoscritta in una regione cerebrale di un solo emisfero, e determinano soltanto contrazioni muscolari involontarie con esperienze sensoriali anomale della durata di pochi secondi, senza perdita di coscienza. Quando si ha perdita di coscienza si parla di CRISI PARZIALI COMPLESSE che frequentemente interessano i due emisferi:  in genere hanno origine nel lobo temporale e sono caratterizzate da una perdita di coscienza variabile tra 30 sec e 2 minuti, associata spesso a movimenti afinalistici come lo schioccare delle labbra e/o la torsione della mano.
Le crisi parziali sono possibili a tutte le età, ma sono più frequenti nella vecchiaia, inoltre, tutti gli accessi parziali possono trapassare in accessi generalizzati, cosicché la loro diagnosi riesce difficile.
Al contrario delle crisi parziali che originano in aree localizzate della corteccia, nelle CRISI GENERALIZZATE è impossibile precisare l’area anatomica. In genere, originano dalla scarica reciproca del talamo e della corteccia e gli attacchi sono accompagnati già all’inizio dalle riduzione della coscienza.
Si distinguono in:
  • ASSENZE o PICCOLO MALE caratterizzata da scariche elettriche di breve durata che determinano fugati perdite di coscienza (20 sec) senza dare convulsioni: in pratica il soggetto sembra assente, ha lo sguardo fisso, rimane immobile e non risponde agli stimoli. Dopo questa breve interruzione, il soggetto riprende l'attività senza avvertire la breve sospensione dello stato di coscienza.
  • GRANDE MALE o CRISI TONICO-CLONICA è caratterizzata da scariche abnormi di tutto il SNC che determinano una iniziale e intensa contrazione di tutta la muscolatura con coinvolgimento anche del sistema nervoso autonomo che si manifesta con scialorrea (bava) e perdita del controllo degli sfinteri (minzione e defecazione): tale fase "tonica" che può essere anche dolorosa (anche se non avvertita dal paziente vista la perdita di coscienza) è seguita da una fase "clonica" in cui si hanno contrazioni alternate a rilasciamento. L'esito di questa forma di epilessia può essere addirittura infausto per soffocamento (chiusura dell'epiglottide dovuta alla retrazione dell'ipoglosso) o per fibrillazione (scarica abnorme sui recettori cardiaci adrenergici β1)

Le anomalie neuronali responsabili dell’epilessia non sono state ancora perfettamente chiarite ma, alla luce del ruolo fondamentale che hanno le sinapsi nel mediare la comunicazione tra i neuroni cerebrali, si è ipotizzato che una disfunzione sinaptica possa essere responsabile di una crisi epilettica.
Il TRATTAMENTO FARMACOLOGICO dell’epilessia è esclusivamente sintomatico, potendo esso controllare la comparsa delle crisi, mentre non è disponibile una terapia curativa. Tuttavia garantisce una vita normale a molti pazienti che altrimenti sarebbero gravemente limitati o minacciati da frequenti crisi epilettiche.
In linea teorica un farmaco antiepilettico ideale dovrebbe sopprimere le crisi senza causare effetti indesiderati ma sfortunatamente i farmaci attualmente usati non solo non controllano le crisi in tutti i pazienti ma causano frequentemente effetti indesiderati per cui il problema maggiore nella terapia antiepilettica è rappresentato dalla costanza nell’assunzione dei farmaci vista la necessità di terapie a lungo termine.
La terapia deve tenere conto della situazione e delle esigenze individuali del paziente e va indicata con cura, perché è prolungata e con effetti collaterali potenzialmente gravi, che possono comunque essere minimizzati nella maggior parte dei casi. In linea generale, dopo aver effettuato la diagnosi di una crisi epilettica in una persona, il medico dovrebbe fare un tentativo nel cercare di determinare la causa nella speranza di individuare una lesione strutturale e/o metabolica curabile. Fallito tale tentativo, il medico dovrebbe chiedersi se e quando iniziare la terapia: ad esempio, la terapia antiepilettica potrebbe esser non necessaria nel caso in cui si abbia avuto un attacco tonico-clonico isolato in un adulto giovane e sano senza casi di epilessia in famiglia e con esami neurologici normali, dato che la probabilità che la crisi epilettica si ripeta negli anni successivi (15%) è approssimativamente simile al rischio di sviluppare una reazione ai farmaci che induca l’interruzione della cura. Al contrario, il verificarsi di un simile attacco convulsivo in un individuo con una storia famigliare di epilessia, esami neurologici anormali, comporta un rischio di ricorrenza del 60% che depone a favore dell’inizio della terapia.
Pertanto, il medico avrà come obiettivo primario la scelta del farmaco più efficace nel controllo della crisi, cercando di mantenere gli effetti collaterali a un livello accettabile. Per minimizzare la tossicità, la cura andrebbe iniziata con un solo farmaco ad un dosaggio ridotto e aumentando la dose basandosi sul controllo della crisi e sulla comparsa di effetti tossici. Se, invece, si verifica una crisi nonostante i livelli di farmaco siano ottimali, andrebbe prima valutata l’eventuale presenza di fattori potenzialmente scatenanti (deprivazione di sonno, febbre, farmaci contenenti sostanze che abbassano la soglia delle crisi epilettiche come la caffeina) e poi eventualmente cambiare farmaco, diminuendo gradualmente il dosaggio del primo in modo da ridurre il rischio di crisi. Nell’eventualità che anche questo secondo farmaco risulti inadeguato, si può ricorrere alla somministrazione contemporanea di due o più farmaci che agiscano tramite meccanismi diversi.
La durata della terapia antiepilettica dipende dal tipo, dalla causa e dall’evoluzione spontanea dell’epilessia. Generalmente si propone una graduale riduzione dei farmaci quando per 2-5 anni non si sono verificate crisi epilettiche e quando sono assenti o minime le alterazioni dell’EEG. La sospensione deve avvenire gradualmente per evitare fenomeni di rebound e di status epilepticus che si hanno con la sospensione brusca e in genere nell’80% dei casi le crisi riappaiono entro 6 mesi dopo la sospensione con la conseguente necessità di riprendere la terapia. La prognosi è migliore quando le crisi sono infrequenti e controllate con basse dosi di un farmaco.
Inoltre, poiché l’epilessia interessa in molti casi l’età riproduttiva, l’impiego di farmaci antiepilettici ha diverse complicazioni per la salute della donna.
Innanzitutto, la maggior parte dei farmaci antiepilettici, essendo induttori del CYP450, diminuiscono l’efficacia dei contraccettivi orali, per aumento del loro metabolismo epatico.
A ciò si aggiungono gli effetti teratogeni e il fatto che gli stessi farmaci che inducono il CYP sono stati associati all’induzione di un deficit di vitamina K nel neonato con conseguente coagulopatia e emorragia intracerebrale che determina la raccomandazione di assumere come profilassi 10 mg di vitamina K durante l’ultimo mese di gestazione. Pertanto, una possibilità per una donna epilettica che desideri avere una gravidanza, è tentare un periodo senza farmaci o in alternativa usare solo un farmaco tenendo sotto controllo la concentrazione plasmatica.
I meccanismi d’azione dei farmaci antiepilettici sono principalmente tre: potenziamento dell’azione del GABA, inibizione della funzionalità dei canali del Na+ e inibizione della funzionalità dei canali del Ca+2.
I farmaci efficaci nella terapia delle forme più comuni di epilessia, cioè le forme parziali e tonico-cloniche sembrano agire attraverso i primi due meccanismi, mentre i farmaci efficaci nella terapia delle assenze utilizzano il terzo.
La comprensione dei meccanismi delle crisi parziali ha suggerito che un POTENZIAMENTO dell’AZIONE del GABA possa ridurre l’eccitabilità neuronale e aumentare così la soglia epilettogena.
Il GABA, identificato per la prima volta nel 1950 è il neurotrasmettitore inibitorio più diffuso del SNC. 
Esso viene formato per decarbossilazione dell’acido glutammico catalizzata dalla GAD (glutammato decarbossilasi), enzima citosolico altamente specifico che ha come cofattore il piridossal fosfato (Vit B6), viene accumulato all’interno delle vescicole da un trasportatore attivo specifico. 
Dopo il rilascio dalle vescicole mediato dal classico meccanismo Ca+2-dipendente la sua azione viene bloccata con un  reuptake attivo e una degradazione operata dall’enzima GABA-α-chetoglutaricotransaminasi (GABA T) che lo deammina a semialdeide succinica la quale viene ossidata ad acido succinico ad opera di una semialdeide-succinico-deidrogenasi NAD-dipendente e infine entra a far parte del ciclo di Krebs;  il gruppo amminico, invece, viene trasferito dalla GABA-T ad una molecola di α-chetoglutarato per formare l'acido glutammico che viene riutilizzato per la sintesi di nuovo GABA. 
Studi elettrofisiologici e biochimici hanno dimostrato che per esplicare la sua azione, il GABA deve legarsi a due tipi di recettori GABAA e GABAB che differiscono fra loro per profilo farmacologico, struttura molecolare e meccanismo di trasduzione del segnale.
Quando il GABA si lega a recettori GABAB, essendo questi dei recettori accoppiati alle proteine G, viene attivata la proteina G inibitrice (Gi) che produce una inibizione dell’enzima adenilato ciclasi. La conseguente riduzione della concentrazione di cAMP si traduce in una inibizione dei canali Ca+2 dipendenti implicati nel rilascio dei neurotrasmettitori.
Il recettore GABAA è un recettori canale permeabile allo ione Cl- che a livello macromolecolare si presenta come un pentamero costituito da due subunità α, due subunità β e una subunità γ nel quale sono presenti i siti di legame specifici per le seguenti molecole:
1) Il sito di legame per il GABA è situato sulla subunità β e la sua attivazione si traduce nell'apertura del canale ionico con conseguente iperpolarizzazione della membrana
2) Il sito di legame per le benzodiazepine, situato sulla subunità α, viene riconosciuto anche da ligandi ad azione antagonista competitiva (flumazenil). Questo sito, quando viene attivato ha la capacità di modulare allostericamente, rispettivamente facilitando e inibendo, l’interazione del GABA con il proprio sito di legame con conseguente attivazione o riduzione dell’attività del canale.
3) Il sito di legame per i barbiturici si trova all’interno del canale per lo ione Cl- che viene in questo modo attivato: i barbiturici, al contrario delle benzodiazepine, sono perciò capaci di indurre influsso di cloro indipendentemente dal legame del GABA con il recettore
Il recettore GABAA è un importante sito d'azione anche per molti anestetici generali, per l'etanolo e per numerosi derivati steroidei. In particolare, questi ultimi composti sembrano possedere dei siti di legame specifici a livello del canale ionico.
Molti dei farmaci anticonvulsivanti clinicamente efficaci attivano il recettore GABAA, aumentando il flusso di ioni Cl- nella cellula e iperpolarizzando così il neurone. Tra questi abbiamo: Fenobarbitale, Primidone, alcune benzodiazepine, Vigabatrin, Tiagabina e Gabapentina.
Il FENOBARBITALE (Gardenale®, Luminale®), è stato il primo farmaco di sintesi efficace come anticomiziale (1912) ed ha sostituito l’uso di KBr; la sua efficacia venne scoperta a seguito delle sue proprietà sedative che indussero i ricercatori a saggiarlo nelle crisi. 

Da esso si è sviluppata poi una intensa ricerca, tesa soprattutto a cercare di scindere l’azione anticomiziale da quella sedativa, basti pensare che le strutture chimiche di gran parte dei farmaci introdotti in commercio prima del 1965 (idantoine, ossazolidindioni e succimidi) sono strettamente correlate alla struttura del fenobarbitale (DERIVATI UREIDICI)
Esso mima e aumenta le azioni del GABA sul complesso recettoriale GABAA portando così ad una iperpolarizzazione della membrana e quindi ad una minor suscettibilità all’innesco del potenziale d’azione.
Il fenobarbitale presenta un assorbimento orale completo ma lento e si ritrova nel sangue legato per il 40-60% alle proteine plasmatiche. Fino al 25% della dose viene eliminato mediante escrezione renale in forma immodificata (essendo una acido debole la sua ionizzazione aumenta nelle urine alcaline cosicché si ha un minor riassorbimento e quindi una maggiore eliminazione), mentre il restante 75% viene inattivato dal CYP2A9. Il farmaco è capace di indurre a livello epatico le isoforme CYP e l’uridin difosfato glucuronil-transferasi (UGT) per cui farmaci che vengono metabolizzati con questi enzimi (contraccettivi orali, steroidi, warfarin, antidepressivi triciclici, altri antiepilettici come la fenitoina) possono venir degradati più rapidamente quando co-somministrati al fenobarbitale.
La sua efficacia nelle forme parziali e tonico-cloniche generalizzate, la scarsa tossicità e il basso costo ne fanno un farmaco di scelta in questi tipi di epilessia anche se il suo impiego è stato ridotto a causa degli effetti sedativi che compaiono in tutti i pazienti all’inizio della terapia ma che possono andar incontro  a tolleranza e dalla tendenza a dare iperattività nei bambini e confusione negli anziani.
A dosaggi eccessivi, compaiono nistagmo, atassia, arresto respiratorio analogamente a tutti gli altri barbiturici, nei quali gli effetti deprimenti a livello del SNC aumentano progressivamente con l’aumentare della dose.
Un analogo del fenobarbitale  in cui l’ossigeno carbonilico è sostituito con due atomi di idrogeno è il PRIMIDONE (Mysoline®),

la cui efficacia nelle forme parziali e tonico-cloniche generalizzate è attribuibile ai suoi metaboliti, fenobarbitale e feniletilmalonammide (PEMA). Oltre che per meccanismo d’azione, il farmaco somiglia al fenobarbitale anche negli effetti collaterali che vanno dalla sedazione al nistagmo, atassia e vertigini.
Anche le benzodiazepine condividono con il fenobarbitale la capacità di potenziare l’azione del GABA ma con un meccanismo diverso dovuto al legame in punti diversi del recettore GABAA: il fenobarbitale, infatti, legandosi direttamente al recettore ne prolunga il tempo di apertura del canale, mentre le BDZ legandosi a un sito regolatorio del recettore diverso da quello di legame per il GABA, aumentano allostericamente il legame del neurotrasmettitore al canale.
Tutte le BDZ possiedono proprietà antiepilettiche ma solo CLONAZEPAM (Frisium®) e CLOBAZAM (Rivotril®) sono stati approvati per il trattamento a lungo termine perché inducono una minore sedazione.
Vengono usati nella terapia delle assenze anche se i loro effetti sviluppano tolleranza in 1-6 mesi di terapia dopo i quali alcuni pazienti non rispondono più ad essi indipendentemente dal dosaggio.
La tolleranza, cioè il graduale aumento della dose necessaria a produrre l’effetto richiesto, è meno marcata di quella indotta dai barbiturici ed è causata da un meccanismo diverso: la tolleranza da barbiturici è di natura farmacocinetica essendo dovuta al loro effetto induttivo sugli enzimi microsomiali epatici farmacometabolizzanti, mentre quella da BDZ è farmacodinamica in quanto sembra conseguente ad una down regulation recettoriale (= diminuzione del numero dei recettori o della risposta del recettore a seguito della persistenza dell’agonista).
Inoltre, la brusca interruzione nell’impiego anticomiziale può dare un peggioramento delle crisi o addirittura uno STATO di MALE EPILETTICO o STATUS EPILEPTICUS, cioè una crisi epilettica che dura più di 30 minuti oppure due o più crisi durante un  periodo di 30 minuti senza un completo recupero tra di esse, che può indurre ipossia, ipotensione, acidosi e ipertermia.
Questo stato è una grave emergenza medica e la terapia deve risolvere le crisi entro 60 minuti. In genere si impiegano LORAZEPAM (Tavor®) e DIAZEPAM (Noan®; Valium®) per via endovenosa in quanto presentano una azione rapida. Il diazepam per via orale viene anche usato in occasione di attacchi febbrili per prevenire le convulsioni nei bambini ad alto rischio.
Oltre che agendo direttamente sui recettori, il potenziamento dell’azione  del GABA si può ottenere anche riducendo la  sua degradazione o inibendo il suo reuptake. La gabapentina, la vigabatrina e la tiagabina sono tutti analoghi strutturali del GABA.
La GABAPENTINA (Neurotin®) è un farmaco antiepilettico approvato dalla FDA nel 1994 per la terapia delle crisi parziali anche generalizzate, specie in associazione con altri farmaci.

La sua struttura chimica, costituita da una molecola di GABA legata in modo covalente a un cicloesano lipofilo, è stata progettata per agire come GABA a livello centrale e il passaggio attraverso la BEE è garantito dalla sua lipofilia. Tuttavia, la sua efficacia non è conseguente al meccanismo ipotizzato durante la sua sintesi: essa non agisce a livello recettoriale ma sui tre enzimi citosolici coinvolti nel metabolismo del GABA (aminotrasferasi, glutammato deidrogenasi e GABA transaminasi) potenziando così l’azione del neutrotrasmettitore. Inoltre, legandosi alle subunità α2δ dei canali del Ca+2 di tipo L del SNC, va a modulare in senso inibitorio l’apertura dei canali del Ca+2.
L’assorbimento intestinale dipende dal trasporto per gli amminoacidi e quindi mostra la caratteristica saturabilità: aumentando la dose la quantità assorbita non aumenta in modo proporzionale e ciò rende il farmaco privo di effetti collaterali associati al sovradosaggio.
Gli effetti collaterali più comuni in terapia sono sonnolenza, vertigini, atassia e affaticabilità che in genere spariscono entro due settimane dall’inizio della terapia cronica. Inoltre, il farmaco non dando interazioni farmacologiche, è ottimo per l’impiego in associazione.
Viene anche usata per l’emicrania, il dolore cronico (adiuvanti) e il disturbo bipolare.
Il VIGABATRIN (Sabril®) è un derivato sintetico approvato dalla FDA nel 1997, 


strutturalmente simile al GABA con un vinile in γ, capace di inibire specificatamente e irreversibilmente mediante legame covalente, la GABA transaminasi, enzima responsabile della metabolizzazione del GABA, aumentando così il contenuto di GABA nel cervello.
Nonostante l’emivita plasmatica breve, il vigabatrin produce un effetto a lunga durata a causa dell’inibizione enzimatica irreversibile (ci vogliono 3 giorni per la rigenerazione dell’enzima) e ciò permette una somministrazione per via orale al giorno nel trattamento delle crisi parziali refrattarie ad altri farmaci e negli spasmi infantili. Gli effetti collaterali sono in genere di tipo psichiatrico e neurologico; in particolare provoca retinopatie gravissime il che ne limita l’uso.
Nello stesso anno del Vigabatrin, è stato approvato l’uso da parte della FDA della TIAGABINA (Gabitril®),

un analogo del GABA che attraversa la BEE andando ad inibire tramite un meccanismo suicida il trasportatore GAT-1, responsabile del reuptake del GABA nei neuroni: in questo modo si potenzia e si prolunga l’attività sinaptica del GABA. Gli effetti collaterali principali sono lievi e moderati, compaiono all’inizio della terapia e includono vertigini, sonnolenza e tremori.
Studi elettrofisiologici condotti sui neuroni durante una crisi parziale hanno rivelato che una caratteristica peculiare di essi è una scarica di pdA ad alta frequenza generalmente rara durante la fisiologica attività neuronale; da qui l’idea che usando sostanze in grado di ridurre l’eccitabilità neuronale si potessero inibire le scariche e ridurre le crisi.
Alcuni dei più importanti farmaci usati nel prevenire le crisi parziali e tonico-cloniche generalizzate agiscono attraverso il BLOCCO dei CANALI del Na+.
I CANALI del Na+ sono proteine integrali di membrana che permettono l’ingresso  di ioni Na+ all’interno delle cellule su cui sono presenti, ossia tutte le cellule eccitabili. Questi canali sono caratterizzati da cinetiche di attivazione e deattivazione estremamente rapide (1-10 msec) e sono formati da una subunità fondamentale, la subunità α, e da subunità β accessorie.
La subunità α è la responsabile di tutte le proprietà elettrofisiologiche e farmacologiche di questi canali. Essa è il cuore del canale ed è formata da 4 domini uguali, etichettati I, II, III e IV, che si associano a formare un tetramero. Ciascun dominio è formato da 6 α eliche di transmembrana (S1-S6).
Tra queste α eliche di transmembrana, la regione S4 agisce come sensore di voltaggio del canale e la sua sensibilità al voltaggio è dovuta alla presenza di residui carichi positivamente (Arg) ogni tre amminoacidi idrofobici: quando viene stimolata da un cambiamento nel voltaggio transmembranario, questa regione si muove verso il lato extracellulare della membrana, rendendo così il canale permeabile agli ioni. Gli ioni Na+ vengono così trasportati passivamente attraverso il poro che è la parte responsabile della selettività agli ioni, essendo di larghezza approssimativa di 0.3-0.5 nm il che consente l’attraversamento di un solo ione Na+ associato ad una molecola d’acqua, e formato di amminoacidi carichi negativamente. Altra regione importante in questo tipo di canale è quella che unisce i domini III e IV, in quanto è la regione che scollega il canale dopo attivazione prolungata, inattivandolo. Questa regione funziona, infatti, da cancello in grado di chiudere dal lato intracellulare il canale, impedendo l’ingresso del Na+ nella cellula.
Pertanto, i canali voltaggio-dipendenti per il Na+ presentano tre tipi di stati: di riposo (chiuso), aperto e refrattario o inattivo (chiuso).
Nell'assone a riposo il cancello e' chiuso; durante il potenziale d’azione il cancello si apre per permettere l’attivazione del canale e la conseguente entrata di un discreto numero di ioni Na+ a causa del loro gradiente chimico, che genera così una depolarizzazione e aumento dell’eccitabilità della cellula.
Dopo la depolarizzazione, il cancello si chiude e lo stato di inattivazione si conclude quando il potenziale di membrana della cellula si ripolarizza.
Pertanto, essendo questi canali regolati dalla differenza di potenziale, svolgono un ruolo fondamentale nella trasmissione del potenziale d’azione: l’attivazione di questi canali, conseguente all’aumento del potenziale di membrana, porta all’entrata di un discreto numero di ioni Na+ per il loro gradiente chimico, causando così una depolarizzazione e aumento dell’eccitabilità della cellula.

Le molecole che agiscono da bloccanti del canale del Na+ sono la Fenitoina, la Carbamazepina, l’Oxcarbamazepina e l’acido valproico, e la loro azione è voltaggio e frequenza dipendente in quanto essi vanno a bloccare preferenzialmente l’eccitabilità di cellule già stimolate in maniera ripetitiva senza interferire con i neuroni attivi a bassa frequenza durante il loro normale stato di attività e il blocco è tanto maggiore quanto maggiore è la frequenza di eccitazione. Questa proprietà deriva dalla loro capacità di legarsi preferenzialmente ai canali del Na+ nel loro stato inattivo, prevenendo così il ritorno allo stato di riposo con conseguente prolungamento del periodo refrattario.
La FENITOINA (Aurantin®) è il membro più importante della famiglia delle IDANTOINE, nate dalla ricerca di analoghi non sedativi del fenobarbitale. 



Come per il fenobarbitale, l’azione anticonvulsiva è legata alla presenza di un fenile o di un altro sostituto aromatico in 5, mentre dalla SAR si è visto che la presenza di un gruppo alchilico aumenta le proprietà sedative.
La fenitoina ha però alcune proprietà farmacocinetiche che devono essere considerate attentamente nel suo impiego clinico. Mentre a causa della sua scarsa idrosolubilità viene difficilmente somministrata per via endovenosa (e ciò ha portato alla produzione della FOSFENITOINA, un profarmaco idrosolubile che viene convertito in fenitoina ad opera delle fosfatasi epatiche e eritrocitarie), dopo somministrazione orale è ben assorbita e per il 90% si ritrova nel sangue legata alle proteina plasmatiche, in primis all’albumina. Dato che alcuni farmaci come i salicilati e l’acido valproico inibiscono questo legame in maniera competitiva, essi andranno a provocare in caso di co-somministrazione un aumento di concentrazione libera, fenomeno che si verifica anche nei neonati e nei pazienti con ipoalbuminemia, per i quali, il fegato, sede di sintesi delle proteine plasmatiche, è immaturo o inefficiente.
L’aumento di fenitoina libera provoca anche un aumento della sua clearance epatica che avviene ad opera del CYP2C9 e del CYP2C10. Inoltre, essendo la molecola un induttore enzimatico, può incrementare il metabolismo di altri farmaci (anticoncezionali, warfarin) e, allo stesso modo, il suo metabolismo, può venir aumentato o ridotto competitivamente da altri composti che si avvalgono degli stessi enzimi epatici: ad esempio, il valproato incrementa i livelli di fenitoina libera oltre che attraverso la competizione con le proteine plasmatiche anche attraverso l’inibizione metabolica, mentre il fenobarbitale e l’etanolo posso provocare un iniziale aumento della attività del farmaco per inibizione competitiva a livello citocromiale seguita da una riduzione per lo stabilirsi dell’induzione enzimatica.
Da tutto ciò (legame con le proteine plasmatiche, non linearità della cinetica di eliminazione, metabolismo saturabile e inducibile) deriva che gli effetti della fenitoina possono aumentare o diminuire in maniera imprevedibile e poiché l’intervallo di concentrazione plasmatica nel quale essa raggiunge l’efficacia senza causare effetti collaterali è ristretto, è necessario sempre il monitoraggio delle sue concentrazioni plasmatiche.
Gli effetti collaterali meno gravi come vertigini, atassia, cefalea e nistagmo iniziano a concentrazioni plasmatiche maggiori di 100 µmol/L e possono divenir gravi a concentrazioni maggiori di 150 µmol/L, mentre gli effetti tossici più gravi sono le aritmie cardiache associate o meno a ipotensione e/o depressione del SNC, che si verificano più frequentemente nei soggetti anziani e cardiopatici ma possono svilupparsi anche nei soggetti giovani e sani.
L’iperplasia gengivale, più deturpante che dannosa, è un effetto collaterale che si sviluppa gradualmente ed è legata ad una alterazione del metabolismo del collagene, così come l’irsutismo che probabilmente origina da un aumento della secrezione di ormoni androgeni.
La CARBAMAZEPINA (Tegretol®) presenta una struttura analoga a quella degli antidepressivi triciclici ed, analogamente alla fenitoina, è un farmaco di prima scelta nelle crisi parziali e tonico-cloniche generalizzate. 

Essa agisce andando a bloccare selettivamente la scarica neuronale ad alta frequenza senza interferire con quella fisiologica attraverso l’inibizione voltaggio e frequenza dipendente dei canali del Na+.
La carbamazepina viene usata anche nel trattamento di vari tipi di dolore neuropatico, compresa la nevralgia del trigemino, una condizione estremamente dolorosa originata da una scarica parossistica dei neuroni associati alla via sensoriale del trigemino e pertanto coinvolgente meccanismi neuronali simili a quelli delle crisi epilettiche.
Dopo somministrazione orale, questo composto scarsamente idrosolubile, viene ben assorbito e si distribuisce in tutti i tessuti. Nell’uomo, la carbamazepina viene principalmente metabolizzata dal CYP3A4 a 10,11-epossido, un metabolita attivo la cui concentrazione plasmatica può raggiungere anche il 50% di quella della molecola madre, in particolare se somministrata in associazione con induttori come fenitoina e fenobarbitale. La stessa carbamazepina è un induttore enzimatico per cui può aumentare il metabolismo di altri farmaci co-somministrati.
Essa provoca una varietà di effetti collaterali che includono sonnolenza (minore di quella indotta da fenitoina), vertigini, atassia che sono di minor entità se sono impiegate preparazioni a lento rilascio che evitano il raggiungimento di elevati livelli plasmatici dopo una singola dose.
All’inizio della terapia si sviluppa in circa il 10% dei pazienti una leucopenia lieve e transitoria che generalmente si risolve entro i primi 4 mesi di terapia continuativa, mentre nel 2% dei casi può diventare persistente e richiedere la sospensione del farmaco. 
Un chetoanalogo della carbamazepina, l’OXCARBAMAZEPINA (Tolep®) viene usato come farmaco aggiuntivo nel trattamento delle forme parziali di epilessia.

Questa molecola agisce da profarmaco venendo subito convertita nel suo metabolita attivo, un 10-monoidrossiderivato il cui meccanismo d’azione è analogo a quello della carbamazepina, presentando minor effetti collaterali e scarse interazioni farmacologiche rispetto a questa.

Le proprietà anticomiziali dell’ACIDO VALPROICO (Depakin®), un acido carbossilico a catena ramificata semplice, sono state scoperte in modo casuale quando venne usato come veicolo per altri composti studiati per la loro attività antiepilettica.
Dopo somministrazione orale, viene assorbito in modo rapido e completo, andandosi a legare per il 90% alle proteine plasmatiche.
I suoi principali enzimi metabolizzanti sono il CYP2C9 e CYP2C19 verso i quali ha un’azione inibitoria. Pertanto, il valproato può ritardare il metabolismo di altri farmaci co-somministrati e substrati di questi enzimi, aumentando la loro concentrazione plasmatica così come legandosi all’albumina può spiazzare altri farmaci dal legame con questa proteina plasmatica.
In circa il 40% dei pazienti sotto terapia con valproato si sono riscontrati aumenti degli enzimi epatici che richiedono il monitoraggio della funzionalità di questo organo. Si sono riscontrati anche disturbi gastrointestinali, aumento di peso, sedazione, atassia e tremore che normalmente rispondono ad una riduzione della dose.
Come fenitoina e carbamazepina, il valproato allunga il tempo di ripresa dei canali del Na dall’inattivazione, tuttavia la sua azione antiepilettica sembra esser legata anche ad un potenziamento dell’azione del GABA sia attraverso una stimolazione dell’ enzima di sintesi sia attraverso l’inibizione degli enzimi degradativi di questo neutrotrasmettitore.
Inoltre, il valproato riduce lievemente la corrente del Ca+2 e ciò spiega la sua efficacia ne controllare sia le crisi parziali e tonico-cloniche che le assenze.
Infatti la caratteristica elettroencefalografica delle assenze consiste nella presenza di scariche generalizzate PUNTA-ONDA a una frequenza di 3 Hz, localizzate nel talamo e nella neocorteccia: questi ritmi a bassa frequenza  sono resi possibili dalla presenza nei neuroni talamici di un particolare tipo di corrente voltaggio dipendente del Ca+2, la corrente a bassa soglia T.
I CANALI del CALCIO sono proteine integrali di membrana che formano canali ionici in grado di condurre i cationi calcio attraverso la membrana plasmatica; la loro apertura può avvenire a causa di un cambiamento di voltaggio (canali del calcio voltaggio dipendenti) oppure a causa del legame di una sostanza (canali calcio ligando dipendenti)
La struttura molecolare dei canali calcio voltaggio dipendenti è del tutto simile  a quella dei canali del Na voltaggio dipendenti, sebbene piccole differenze nelle sequenze amminoacidiche cambino profondamente la selettività. La classificazione dei canali voltaggio dipendenti per il Ca è effettuata in base alle proprietà elettrofisiologiche in: i canali a bassa soglia (transient) o canali T che si attivano in seguito a piccole depolarizzazioni e si inattivano molto rapidamente, mediando l’ingresso di calcio nei neuroni e quindi controllando varie funzioni calcio-dipendenti; i canali ad alta soglia (long lasting) si attivano in seguito a forti depolarizzazioni e rimangono aperti più a lungo e sono suddivisi a loro volta in vari sottotipi, dei quali il sottotipo L è importante nella regolazione della contrazione della muscolatura liscia e del miocardio e i sottotipi N e P sono importanti nel rilascio di neurotrasmettitori ed ormoni.
Nei neuroni talamici è la corrente T che media le scariche punta-onda tipiche delle assenze, per cui il meccanismo d’azione dei farmaci usati in questa forma di epilessia, come il valproato e l’etosuccimide, consiste proprio nel BLOCCO DEI CANALI DEL CA+2 che mediano tali correnti.
L’ETOSUCCIMIDE (Zarotin®) appartiene alla classe delle SUCCIMIDI ed è un altro di quei farmaci sviluppati empiricamente modificando la struttura dell’anello dell’acido barbiturico.
Esso è il farmaco di prima scelta nella terapia delle assenze in quanto bloccando selettivamente i canali del Ca voltaggio dipendenti di tipo T sopprime gli spikes dei neuroni talamici coinvolti nella genesi delle assenze.
I più comuni effetti collaterali dose-dipendente sono disturbi gastrointestinali (nausea, vomito, anoressia), sonnolenze o euforia, tutti effetti ai quali si sviluppa con il tempo una certa tolleranza.
Negli ultimi anni la ricerca farmaceutica sui composti impiegati nell’epilessia ha ripreso piede con l’introduzione in terapia del:
Il TOPIRAMATO (Topamax®) ha un’ampia attività antiepilettica andando a bloccare i canali del Na e viene impiegato anche per il trattamento delle cefalee.
Il LEVETIRACETAM (Keppra®) è un analogo strutturale del piracetam il cui meccanismo d’azione non  è ancora del tutto chiaro. Si pensa che possa andare ad agire con i canali del Ca+2

Per quanto riguarda la terapia non farmacologica, la stimolazione del nervo vago è un approccio terapeutico recente che è indicato in casi di epilessia farmacoresistente in cui la terapia chirurgica sia non possibile o controindicata. La sua efficacia è inferiore a quella della terapia chirurgica ma è stata dimostrata in una serie di studi clinici. Richiede l'impianto di un elettrostimolatore che viene collegato con il nervo vago sinistro il quale trasporta le afferenze sensorie dai visceri al cervello. Per un meccanismo ancora sconosciuto la modulazione terapeutica della sua attività elettrica influenza l'attività elettrica cerebrale in modo da rendere il cervello meno suscettibile alla formazione di focolai epilettici. Come la terapia chirurgica, la stimolazione del nervo vagale richiede l'assistenza da parte di centri specializzati.
Le principali attività della ricerca sull'epilessia sono concentrate sulla scoperta di farmaci ancora più efficaci e sempre meglio tollerati anche con il mezzo di modelli sperimentali sempre più raffinati. Inoltre, verranno provati nuovi protocolli di elettrostimolazione e l'applicazione di farmaci antiepilettici tramite sonde intracerebrali che rilasciano il farmaco solo nella regione in cui originano le crisi epilettiche. In tal modo si potrebbe raggiungere un effetto specifico evitando gli effetti collaterali del farmaco sul tessuto cerebrale sano.

mercoledì 21 gennaio 2015

Farmacoterapia delle Psicosi




Il termine ANTIPSICOTICO o NEUROLETTICO o TRANQUILLANTE MAGGIORE,  è usato per indicare un gruppo di farmaci impiegati principalmente negli stati di psicosi.
Il termine PSICOSI denota diversi disordini mentali in cui non c’è soltanto una compromissione del comportamento ma anche grave incapacità di comprendere la realtà e di pensare in modo coerente.
Un particolare tipi di psicosi è la SCHIZOFRENIA, una malattia cronica gravemente debilitante che colpisce circa l'1% della popolazione mondiale, specialmente giovani, caratterizzata da una
DESTRUTTURAZIONE DEL SE' PSICHICO DEL SOGGETTO CHE PORTA ALLA PERDITA DELLE FUNZIONI SUPERIORI E DELLA LORO CONTINUITA', INDISPENSABILI PER ELABORARE STRATEGIE COMPORTAMENTALI E DI ADATTAMENTO ALLE MODIFICAZIONI ESTERNE.
Ciò determina una serie di sintomi che vengono classificati in positivi e negativi. 
La sintomatologia positiva comprende allucinazioni (voci spesso foriere di messaggi esortatori), deliri (spesso di natura paranoica), disordini del pensiero (che inducono l’individuo a trarre conclusioni irrazionali e a formulare frasi sconnesse, talvolta associate alla sensazione che i pensieri siano controllati da una forza esteriore), comportamenti bizzarri (come quelli stereotipati).
La sintomatologia negativa comprende disturbi cognitivi ed emozionali, quali isolamento dalla vita sociale, appiattimento delle risposte emotive, apatia. Inoltre, sono spesso presenti deficit della funzione cognitiva, assieme ad ansia e depressione che conducono al suicidio nel 10% dei casi.
Una caratteristica tipica della schizofrenia è un difetto dell’attenzione selettiva: mentre un individuo normale accetta stimoli di natura familiare o senza importanza e reagisce solo a stimoli inattesi o significativi, la capacità dei pazienti schizofrenici di discriminare tra stimoli significativi e insignificanti, sembra essere compromessa. Ad esempio, il ticchettio di un orologio può suscitare la stessa attenzione delle parole di un compagno oppure un pensiero fortuito, che una persona normale abbandona perché non importante, può diventare un imperativo irrinunciabile.
L’eziologia della schizofrenia è eterogenea e multifattoriale, con componenti genetiche e ambientali, e le sua basi neurobiologiche, così come delle altre sindromi psicotiche correlate, rimangono ancora del tutto da chiarire: studi a livello cerebrale di questi pazienti hanno dimostrato un allargamento dei ventricoli cerebrali, una riduzione del volume dell’encefalo, anomalie nei gangli della base, riduzione del flusso ematico. 
Carlsson, vincitore del premio Nobel nel 2000, ha correlato questa patologia ad ALTERAZIONI della FUNZIONE DOPAMINERGICA sulla base di evidenze farmacologiche: l’amfetamina, in grado di rilasciare dopamina nel cervello e gli agonisti potenti del recettore D2 (come l’apomorfina) possono generare nell’uomo una sindrome indistinguibile da un episodio acuto di schizofrenia (molto familiare ai medici che si occupano di tossicodipendenti) oppure peggiorare i sintomi nei pazienti schizofrenici, mentre antagonisti dopaminergici, così come molecole in grado di causare la deplezione di questo neurotrasmettitore (es. reserpina) sono efficaci nel controllare i sintomi positivi della malattia.
La DOPAMINA è un neurotrasmettitore endogeno della famiglia delle catecolamine, prodotta in diverse aree del cervello, la cui sintesi segue la medesima via di quella della noradrenalina, vale a dire inizia con la conversione della tirosina a dopa (passaggio limitante) seguito dalla decarbossilazione a formare dopamina. Il processo si ferma a questo stadio perché i neuroni dopaminergici mancano dell’enzima dopamina β idrossilasi, e quindi non possono procedere alla sintesi della noradrenalina.
Dopo il suo rilascio dalle terminazioni nervose, la dopamina viene ricaptata soprattutto per mezzo di un trasportatore specifico e viene metabolizzata dalle monoamminossidasi (MAO) e dalle cateto-O-metiltransferasi (COMT) dando come prodotti principali l’acido diidrossifenilacetico (DOPAC) e l’acido omovanillico (HVA); questi prodotti sono poi solfatati e escreti con le urine.

L’azione della dopamina si esplica attraverso due famiglie di recettori, tutti recettori metabotropici associati alle proteine G e possono essere pre- o post-sinaptici: i recettori della famiglia D1 sono solo post sinaptici e agendo sulla proteina Gs, inducono l’adenilatociclasi con un aumento della concentrazione di cAMP; i recettori della famiglia D2 sono sia pre- che post-sinaptici e, agendo sulla proteina Gi, diminuiscono la concentrazione di cAMP.
I neuroni dopaminergici formano 4 sistemi principali:
  • Il sistema mesolimbico-mesocorticale che rappresenta una via strettamente correlata al comportamento: in particolare l'area mesolimbica è correlata all'emozione mentre l'area mesocorticale è correlata all'apprendimento e alla memoria; nei pazienti schizofrenici, la prima è iperattiva il che spiega i sintomi positivi, mentre la seconda è ipoattiva il che spiega i sintomi negativi e i deficit cognitivi
  • Il sistema nigro-striatale che contiene il 75% della dopamina del cervello ed è coinvolto nella regolazione dei movimenti volontari attraverso il recettore D2
  • Il sistema tubero-infundibolare coinvolto nella secrezione di prolattina
  • La via medullo-periventricolare formata dai neuroni presenti nel nucleo motore del vago e probabilmente implicata nel comportamento alimentare

Pertanto, in base a questa distribuzione anatomica, un antipsicotico ideale dovrebbe: diminuire la trasmissione dopaminergica mesolimbica, aumentare la trasmissione dopaminergica mesocorticale cercando di non influenzare la trasmissione dopaminergica nigrostriatale e tubero infundibolare.
Nonostante la teoria dell’iperattività dopaminergica nella schizofrenia sia sostenuta da considerevoli evidenze e fornisca un miglior quadro per comprendere l’azione dei farmaci antipsicotici, dallo studio e dalla ricerca di nuovi farmaci antipsicotici si è messo in evidenza il ruolo di un altro neurotrasmettitore, la serotonina.
L’ipotesi che una ALTERAZIONE del SISTEMA SEROTONINERGICO possa rappresentare la causa alla base della schizofrenia ha preso spunto dall’osservazione che l’LSD provoca sintomi simili a quelli della schizofrenia. Inoltre, molti farmaci antipsicotici dotati di efficacia, oltre a bloccare i recettori dopaminergici, agiscono da antagonisti del recettore 5-HT2A e la serotonina ha un effetto modulatorio sulle vie dopaminergiche per cui le due teorie non sono tra loro incompatibili.
In questi ultimi anni è stato suggerito che alla base della disfunzione molecolare che sottendono la patologia schizofrenica ci sia una ALTERAZIONE STRUTTURALE e FUNZIONALE DELLA CORTECCIA CEREBRALE dove il glutammato è il principale neurotrasmettitore il che è stato messo in luce dal fatto che la fenciclidina, antagonista dei recettori NMDA, induce sintomi psicotici propri della malattia.
Recentemente, inoltre, è stata postulata anche l’ipotesi di un’alterazione del neurosviluppo di alcuni circuiti cerebrali che suggerisce che il processo patogenico (genetico o ambientale) preceda l’inizio formale della patologia e avvenga durante la gestazione oppure durante i primi giorni di vita post-natale. I fattori eziologici specifici che potrebbero essere coinvolti, indipendentemente oppure in combinazione con la vulnerabilità genetica, comprendono l’esposizione prenatale a virus, deficienze nutrizionali e complicazioni ostetriche al momento del parto. Vi sono chiare evidenze, derivanti da studi su famiglie e gemelli, che suggeriscono l’importanza della componente genetica nell’eziologia della schizofrenia anche se la percentuale di sviluppo di questa patologia fra i gemelli monozigoti si attesta solamente intorno al 50%, implicando l’esistenza di altri fattori epigenetici o ambientali.
Pertanto, mentre appare ormai chiaro che aberranti processi durante il neurosviluppo possono predisporre l’individuo alla schizofrenia una volta raggiunta l’età adulta, l’inizio e il decorso della patologia sembrano derivare da specifici disturbi neurochimici che coinvolgono sistemi neurotrasmettitoriali come quello dopaminergico, glutammatergico e serotoninergico e su questi la terapia farmacologica si è soffermata.
I farmaci antipsicotici vengono solitamente divisi in farmaci convenzionali o tipici, rappresentati dal grande gruppo di farmaci sintetizzati prima del 1980 (fenotiazine, tioxantine e butirrofenoni) e farmaci atipici, un gruppo di composti più recente e diversificato (derivati dibenzazepinici, derivati benzammidici e vari), il cui termine “atipico” è riferito alla loro minor tendenza di causare effetti indesiderati di tipo motorio e/o alla loro capacità di migliorare sia i sintomi negativi che i sintomi positivi. 
I FARMACI ANTIPSICOTICI CONVENZIONALI comprendono composti triciclici con tre anelli condensati: se in posizione 10 si ha un atomo di azoto, abbiamo le famiglie delle FENOTIAZINE, il cui capostipite è la clorpromazina, mentre se è presente un atomo di carbonio abbiamo i TIOXANTENI



La genesi dei neurolettici fenotiazinici affonda nelle ricerche di Bovet sugli antistaminici a partire dai benzodiossani, dei quali vennero progettati e sperimentati un gran numero di derivati.
Da questi, per modificazioni successive, si ottenne la prometazina. La capacità di questa molecola di prolungare il sonno indotto da barbiturici nei roditori portò alla sua introduzione in terapia come potenziante dell’anestesia. Le ricerche successive a partire dalla prometazina culminarono con la sintesi della CLORPROMAZINA.
Si deve al chirurgo francese Laborit ed ai suoi collaboratori l’aver compreso tutta la potenzialità clinica di questa molecola: essi infatti osservarono che la  molecola di per sé non causa perdita di coscienza ma concilia il sonno e induce uno stato di indifferenza verso l’ambiente circostante, per cui sperimentandola su pazienti psicotici ci si rese conto che con essa era possibile controllare i sintomi senza causare una eccessiva sedazione. Così quella che inizialmente sembrava una lieve modificazione strutturale dell’antistaminico prometazina, portò alla scoperta di una nuova classe di farmaci che ha dato un rinnovamento radicale nella terapia e nella vita dei pazienti schizofrenici.
L’efficacia clinica delle fenotiazine venne dimostrata molto prima della comprensione del loro meccanismo d’azione. Ricerche farmacologiche mostrarono in seguito che questi farmaci erano in grado di bloccare l’azione di molti mediatori, tra cui  l’istamina, le catecolamine, l’acetilcolina e la serotonina e fu proprio questa molteplicità di azioni a determinare il nome commerciale di Largactil® per la clorpromazina.
Nell’uomo, i neurolettici fenotiazinici e i tioxantenici, riducono l’iniziativa, l’interesse per quello che lo circonda, la risposta emotiva, la rapidità di reazione agli stimoli esterni e causano un certo stato confusionale. Ciò si traduce nei pazienti psicotici in un minor stato di agitazione, irrequietezza e di impulsività.
L’azione antipsicotica è prodotta dalla capacità di bloccare i recettori D2 nel sistema mesolimbico-mesocorticale e per spiegare ciò è opportuno confrontare le strutture complesse e rigide di questi farmaci policiclici con quella della dopamina.
Nella conformazione preferita, la catena laterale della fenotiazina tende ad orientarsi verso l’atomo di cloro presente sull’anello aromatico in posizione 2. Tale atomo di cloro non solo rende la molecola asimmetrica, ma fa sì che tale orientazione determini una parziale sovrapposizione tra la struttura della fenotiazina e quella della dopamina; si spiega così perché nella maggioranza dei casi, all’assenza dell’atomo di cloro corrisponda la mancanza di attività neurolettica.
Altra importante caratteristica strutturale è la lunghezza della catena laterale basica: le due funzioni azotate devono esser separate da una catena a 3 atomi di C, il che spiega la minor attività come neurolettico dell’antistaminico prometazina (ne ha 2).
I neurolettici convezionali della classe dei BUTIRROFENONI sono stati invece scoperti da Janssen nel corso di ricerche tese a potenziare l’attività analgesica della meperidina; dai primi derivati, venne poi eliminata mediante modifiche strutturali la componente morfinica e potenziata quella neurolettica fino ad arrivare all’ALOPERIDOLO (Serenase®).

I butirrofenoni dotati di attività neurolettica presentano la seguente formula generale:


La presenza di un gruppo amminico terziario dopo quattro atomi di carbonio della catena acilica è essenziale per la loro azione; a livello di questa funzione azotata terziaria, che generalmente è un ciclo a 6 termini (piperidinico, tetraidropiridinico e piperazinico) sono possibili modifiche con sostituenti in posizione 4.
Inoltre la loro attività è incrementata da un atomo di fluoro in posizione para nell’anello benzenico ed è diminuita dalla sostituzione del cheto gruppo.
Anche l’azione antipsicotica di questa classe di farmaci è prodotta dall’antagonismo verso i recettori D2 nel sistema mesolimbico-mesocorticale.
In genere, con queste tre classi di farmaci si procede con una terapia di attacco che consiste in 3-4 dosi al giorno per poi impiegare una terapia di mantenimento di una dose al giorno prima di andar a letto in modo da indurre il sonno ed evitare la sonnolenza diurna.
Tuttavia, non essendo nessuno di essi antidopaminergici puri si avranno effetti collaterali che possono colpire il SNC, il SNA e il sistema endocrino.
A livello del SNC il blocco dei recettori dopaminergici causa una serie di reazioni extrapiramidali che comprendono sindrome parkinsoniana e  irrequietezza incontrollabile (acatisia). Successivamente per blocco dei recettori colinergici si verifica discinesia, mentre il blocco dei recettori dell’istamina causa sonnolenza.
A livello del SNA per blocco dei recettori muscarinici si avrà perdita dell’accomodazione visiva, bocca secca, difficoltà ad urinare e stipsi, mentre per blocco dei recettori α adrenergici si avrà ipotensione ortostatica, impotenza, mancanza di eiaculazione.
A livello endocrino il blocco dei recettori dopaminergici della via tubero-infundibolare causa iperprolattinemia la quale, nella donna può dar luogo a disturbi mestruali, infertilità, perdita della libido fino ad osteoporosi per carenza di estrogeni, mentre nell’uomo può portare a ginecomastia, perdita della libido, ridotta spermatogenesi fino a osteoporosi da carenza di testosterone.
A causa di questi sintomi collaterali, per i quali non si ha tolleranza ma solo regressione per sospensione, la terapia antipsicotica non è piacevole e spesso viene sospesa con un aumento dei casi delle ricadute del 53% e rischio di suicidio per i pazienti.
Gli effetti collaterali causati da questi farmaci hanno sicuramente contribuito a promuovere la ricerca e lo sviluppo di nuove molecole che vengono appunto definite atipiche o non convenzionali.
Questa classe di farmaci, comprende molecole chimicamente varie, accumunate da avere caratteristiche farmacodinamiche peculiari: una affinità relativamente più alta per i recettori serotoninergici 5-HT2A, adrenergici e istaminergici (profilo multi recettoriale), rispetto ai dopaminergici D1 e D2; una maggiore affinità per i recettori D2 mesolimbici e mesocorticali rispetto a quelli nigrostriatali; una rapida cinetica di dissociazione sufficiente a determinare l’effetto terapeutico, ma non gli effetti indesiderati.
Tutto ciò si traduce in minor effetti collaterali, soprattutto quelli extrapiramidali, e quindi una maggiore compliance da parte del paziente. In particolare l’uso delle molecole atipiche  non provoca iperprolattinemia, un importante effetto collaterale legato all’uso dei farmaci antipsicotici classici e che comporta una serie di disfunzioni sessuali e riproduttive; ciò è correlabile al ridotto blocco dei recettori dopaminergici D2 che controllano in maniera inibitoria il rilascio della prolattina a livello tubero-infundibolare. Tuttavia, la minor incidenza di effetti collaterali non costituisce l’unico vantaggio di questa classe di farmaci: queste molecole, infatti, si sono dimostrate attive, almeno parzialmente, nei pazienti che non rispondevano alla terapia con gli antipsicotici classici, contrastando i deficit cognitivi dei pazienti schizofrenici. Ultimamente, tuttavia, è stato riscontrato un aumento di peso con l’impiego di questi farmaci, il che si presenta in modo più marcato nei soggetti con BMI inizialmente basso e nelle prime settimane di trattamento, raggiungendo un plateau dopo circa 9 mesi.
Tra gli antipsicotici atipici abbiamo derivati dibenzodiazepinici, dibenzotiazepinici e le benzammidi.
I DERIVATI DIBENZODIAZEPINICI, il cui capostipite è la CLOZAPINA (Leponex®), a cui si affianca anche la OLANZAPINA (Zyprexa®), mostrano un ampio profilo recettoriale in quanto in grado di agire con i recettori del sistema dopaminergico, serotoninergico, colinergico e adrenergico,; essi, inoltre, non solo presentano una minor affinità verso il D2 (<70%) ma danno una occupazione di questo recettore per un breve lasso di tempo, sufficiente a dare l’azione anti-psicotica e a permettere a questi recettori di essere fisiologicamente responsivi alla dopamina endogena.
Le reazioni avverse più comuni sono a carico del SNC (sonnolenza, sedazione), del SNA (secchezza delle fauci, scialorrea, sudorazione) e del sistema cardiovascolare (tachicardia, ipotensione). Tuttavia, l’incidenza piuttosto alta di agranulocitosi limita seriamente l’impiego clinico. 


Analogamente alla clozapina, anche la QUETIAPINA (Seroquel®), facente parte dei DERIVATI DIBENZOTIAZEPINICI,  presenta una cinetica rapida di dissociazione dal recettore D2 ma ha anche una ulteriore minore affinità per questi recettori (< 60%).

La classe delle BENZAMMIDI sostituite, si può considerare derivata, almeno come filiazione, dagli acidi p-amminobenzoico e p-amminosalicilico. Il capostipite può considerarsi la METOCLOPRAMIDE (Plasil®) che, accanto all’attività antiemetica, possiede una precisa attività antidopaminergica centrale, tradotta successivamente in antipsicotica. Da questo prototipo deriva la sulpiride.

La SULPIRIDE (Dobren®) e l’AMISULPIRIDE agiscono come antagonisti D2 e vengono usate, in dosi standard per il trattamento della psicosi, mentre a dosi basse, per il trattamento della depressione a causa della inibizione dei recettori D2 presinaptici che aumenta l’attività dopaminergica.
Altri psicotici non appartenenti alle classi appena viste sono il risperidone, l’aripiprazolo e  la reserpina.
In Italia il RISPERIDONE (Risperdal®)  è in vendita in compresse da 1 (bianche), 2 (arancioni), 3 (gialle) e 4 (verdi) mg e gocce orali da 1 mg/ml; solo in compresse dello stesso dosaggio come Belivon®.
L’ARIPIPRAZOLO (Abilify®) si comporta da parziale agonista ai recettori dopaminergici prevenendo il legame della dopamina ma nello stesso tempo determinando una certa attivazione che è fisiologicamente rilevante anche se molto più debole di quella causata dalla dopamina endogena. In questo modo l’iperattività del recettore postsinaptico viene modulata e stabilizzata ma non completamente bloccata.
La RESERPINA, un alcaloide indolico isolato dalla Rauwolfia serpentina, è stato il primo farmaco per il quale è stata dimostrata un’azione sul sistema nervoso simpatico che ne ha permesso un ampio impiego nella terapia farmacologia delle psicosi e dell’ipertensione, anche se la messa a punto di composti più efficaci con effetti indesiderati considerevolmente più contenuti la rende un farmaco obsoleto che ha al momento solo un interesse storico. Essa si lega strettamente alle vescicole adrenergiche a livello dei neuroni adrenergici centrali e periferici andando a inibire il trasporto vescicolare di questo neurotrasmettitore; il risultato finale è una simpatectomia farmacologica con un recupero della funzionalità simpatica che richiede la sintesi di altre vescicole di deposito, per la quale sono necessari giorni o settimane dall’interruzione del trattamento con reserpina. 

BIBLIOGRAFIA
  • Goodman & Gilman Le basi farmacologiche della terapia Mc Graw Hill ed
  • Rang Y Dale Farmacologia Elsevier ed
  • Katzung Farmacologia Generale e Clinica Piccin ed.
  • Foye, Lemke, Williams Principi di chimica farmaceutica Padova ed.
  • Appunti di lezione della Professoressa Tita
  • http://www.iss.it/binary/publ/publi/0232.1109328163.pdf