mercoledì 21 gennaio 2015

Farmacoterapia delle Psicosi




Il termine ANTIPSICOTICO o NEUROLETTICO o TRANQUILLANTE MAGGIORE,  è usato per indicare un gruppo di farmaci impiegati principalmente negli stati di psicosi.
Il termine PSICOSI denota diversi disordini mentali in cui non c’è soltanto una compromissione del comportamento ma anche grave incapacità di comprendere la realtà e di pensare in modo coerente.
Un particolare tipi di psicosi è la SCHIZOFRENIA, una malattia cronica gravemente debilitante che colpisce circa l'1% della popolazione mondiale, specialmente giovani, caratterizzata da una
DESTRUTTURAZIONE DEL SE' PSICHICO DEL SOGGETTO CHE PORTA ALLA PERDITA DELLE FUNZIONI SUPERIORI E DELLA LORO CONTINUITA', INDISPENSABILI PER ELABORARE STRATEGIE COMPORTAMENTALI E DI ADATTAMENTO ALLE MODIFICAZIONI ESTERNE.
Ciò determina una serie di sintomi che vengono classificati in positivi e negativi. 
La sintomatologia positiva comprende allucinazioni (voci spesso foriere di messaggi esortatori), deliri (spesso di natura paranoica), disordini del pensiero (che inducono l’individuo a trarre conclusioni irrazionali e a formulare frasi sconnesse, talvolta associate alla sensazione che i pensieri siano controllati da una forza esteriore), comportamenti bizzarri (come quelli stereotipati).
La sintomatologia negativa comprende disturbi cognitivi ed emozionali, quali isolamento dalla vita sociale, appiattimento delle risposte emotive, apatia. Inoltre, sono spesso presenti deficit della funzione cognitiva, assieme ad ansia e depressione che conducono al suicidio nel 10% dei casi.
Una caratteristica tipica della schizofrenia è un difetto dell’attenzione selettiva: mentre un individuo normale accetta stimoli di natura familiare o senza importanza e reagisce solo a stimoli inattesi o significativi, la capacità dei pazienti schizofrenici di discriminare tra stimoli significativi e insignificanti, sembra essere compromessa. Ad esempio, il ticchettio di un orologio può suscitare la stessa attenzione delle parole di un compagno oppure un pensiero fortuito, che una persona normale abbandona perché non importante, può diventare un imperativo irrinunciabile.
L’eziologia della schizofrenia è eterogenea e multifattoriale, con componenti genetiche e ambientali, e le sua basi neurobiologiche, così come delle altre sindromi psicotiche correlate, rimangono ancora del tutto da chiarire: studi a livello cerebrale di questi pazienti hanno dimostrato un allargamento dei ventricoli cerebrali, una riduzione del volume dell’encefalo, anomalie nei gangli della base, riduzione del flusso ematico. 
Carlsson, vincitore del premio Nobel nel 2000, ha correlato questa patologia ad ALTERAZIONI della FUNZIONE DOPAMINERGICA sulla base di evidenze farmacologiche: l’amfetamina, in grado di rilasciare dopamina nel cervello e gli agonisti potenti del recettore D2 (come l’apomorfina) possono generare nell’uomo una sindrome indistinguibile da un episodio acuto di schizofrenia (molto familiare ai medici che si occupano di tossicodipendenti) oppure peggiorare i sintomi nei pazienti schizofrenici, mentre antagonisti dopaminergici, così come molecole in grado di causare la deplezione di questo neurotrasmettitore (es. reserpina) sono efficaci nel controllare i sintomi positivi della malattia.
La DOPAMINA è un neurotrasmettitore endogeno della famiglia delle catecolamine, prodotta in diverse aree del cervello, la cui sintesi segue la medesima via di quella della noradrenalina, vale a dire inizia con la conversione della tirosina a dopa (passaggio limitante) seguito dalla decarbossilazione a formare dopamina. Il processo si ferma a questo stadio perché i neuroni dopaminergici mancano dell’enzima dopamina β idrossilasi, e quindi non possono procedere alla sintesi della noradrenalina.
Dopo il suo rilascio dalle terminazioni nervose, la dopamina viene ricaptata soprattutto per mezzo di un trasportatore specifico e viene metabolizzata dalle monoamminossidasi (MAO) e dalle cateto-O-metiltransferasi (COMT) dando come prodotti principali l’acido diidrossifenilacetico (DOPAC) e l’acido omovanillico (HVA); questi prodotti sono poi solfatati e escreti con le urine.

L’azione della dopamina si esplica attraverso due famiglie di recettori, tutti recettori metabotropici associati alle proteine G e possono essere pre- o post-sinaptici: i recettori della famiglia D1 sono solo post sinaptici e agendo sulla proteina Gs, inducono l’adenilatociclasi con un aumento della concentrazione di cAMP; i recettori della famiglia D2 sono sia pre- che post-sinaptici e, agendo sulla proteina Gi, diminuiscono la concentrazione di cAMP.
I neuroni dopaminergici formano 4 sistemi principali:
  • Il sistema mesolimbico-mesocorticale che rappresenta una via strettamente correlata al comportamento: in particolare l'area mesolimbica è correlata all'emozione mentre l'area mesocorticale è correlata all'apprendimento e alla memoria; nei pazienti schizofrenici, la prima è iperattiva il che spiega i sintomi positivi, mentre la seconda è ipoattiva il che spiega i sintomi negativi e i deficit cognitivi
  • Il sistema nigro-striatale che contiene il 75% della dopamina del cervello ed è coinvolto nella regolazione dei movimenti volontari attraverso il recettore D2
  • Il sistema tubero-infundibolare coinvolto nella secrezione di prolattina
  • La via medullo-periventricolare formata dai neuroni presenti nel nucleo motore del vago e probabilmente implicata nel comportamento alimentare

Pertanto, in base a questa distribuzione anatomica, un antipsicotico ideale dovrebbe: diminuire la trasmissione dopaminergica mesolimbica, aumentare la trasmissione dopaminergica mesocorticale cercando di non influenzare la trasmissione dopaminergica nigrostriatale e tubero infundibolare.
Nonostante la teoria dell’iperattività dopaminergica nella schizofrenia sia sostenuta da considerevoli evidenze e fornisca un miglior quadro per comprendere l’azione dei farmaci antipsicotici, dallo studio e dalla ricerca di nuovi farmaci antipsicotici si è messo in evidenza il ruolo di un altro neurotrasmettitore, la serotonina.
L’ipotesi che una ALTERAZIONE del SISTEMA SEROTONINERGICO possa rappresentare la causa alla base della schizofrenia ha preso spunto dall’osservazione che l’LSD provoca sintomi simili a quelli della schizofrenia. Inoltre, molti farmaci antipsicotici dotati di efficacia, oltre a bloccare i recettori dopaminergici, agiscono da antagonisti del recettore 5-HT2A e la serotonina ha un effetto modulatorio sulle vie dopaminergiche per cui le due teorie non sono tra loro incompatibili.
In questi ultimi anni è stato suggerito che alla base della disfunzione molecolare che sottendono la patologia schizofrenica ci sia una ALTERAZIONE STRUTTURALE e FUNZIONALE DELLA CORTECCIA CEREBRALE dove il glutammato è il principale neurotrasmettitore il che è stato messo in luce dal fatto che la fenciclidina, antagonista dei recettori NMDA, induce sintomi psicotici propri della malattia.
Recentemente, inoltre, è stata postulata anche l’ipotesi di un’alterazione del neurosviluppo di alcuni circuiti cerebrali che suggerisce che il processo patogenico (genetico o ambientale) preceda l’inizio formale della patologia e avvenga durante la gestazione oppure durante i primi giorni di vita post-natale. I fattori eziologici specifici che potrebbero essere coinvolti, indipendentemente oppure in combinazione con la vulnerabilità genetica, comprendono l’esposizione prenatale a virus, deficienze nutrizionali e complicazioni ostetriche al momento del parto. Vi sono chiare evidenze, derivanti da studi su famiglie e gemelli, che suggeriscono l’importanza della componente genetica nell’eziologia della schizofrenia anche se la percentuale di sviluppo di questa patologia fra i gemelli monozigoti si attesta solamente intorno al 50%, implicando l’esistenza di altri fattori epigenetici o ambientali.
Pertanto, mentre appare ormai chiaro che aberranti processi durante il neurosviluppo possono predisporre l’individuo alla schizofrenia una volta raggiunta l’età adulta, l’inizio e il decorso della patologia sembrano derivare da specifici disturbi neurochimici che coinvolgono sistemi neurotrasmettitoriali come quello dopaminergico, glutammatergico e serotoninergico e su questi la terapia farmacologica si è soffermata.
I farmaci antipsicotici vengono solitamente divisi in farmaci convenzionali o tipici, rappresentati dal grande gruppo di farmaci sintetizzati prima del 1980 (fenotiazine, tioxantine e butirrofenoni) e farmaci atipici, un gruppo di composti più recente e diversificato (derivati dibenzazepinici, derivati benzammidici e vari), il cui termine “atipico” è riferito alla loro minor tendenza di causare effetti indesiderati di tipo motorio e/o alla loro capacità di migliorare sia i sintomi negativi che i sintomi positivi. 
I FARMACI ANTIPSICOTICI CONVENZIONALI comprendono composti triciclici con tre anelli condensati: se in posizione 10 si ha un atomo di azoto, abbiamo le famiglie delle FENOTIAZINE, il cui capostipite è la clorpromazina, mentre se è presente un atomo di carbonio abbiamo i TIOXANTENI



La genesi dei neurolettici fenotiazinici affonda nelle ricerche di Bovet sugli antistaminici a partire dai benzodiossani, dei quali vennero progettati e sperimentati un gran numero di derivati.
Da questi, per modificazioni successive, si ottenne la prometazina. La capacità di questa molecola di prolungare il sonno indotto da barbiturici nei roditori portò alla sua introduzione in terapia come potenziante dell’anestesia. Le ricerche successive a partire dalla prometazina culminarono con la sintesi della CLORPROMAZINA.
Si deve al chirurgo francese Laborit ed ai suoi collaboratori l’aver compreso tutta la potenzialità clinica di questa molecola: essi infatti osservarono che la  molecola di per sé non causa perdita di coscienza ma concilia il sonno e induce uno stato di indifferenza verso l’ambiente circostante, per cui sperimentandola su pazienti psicotici ci si rese conto che con essa era possibile controllare i sintomi senza causare una eccessiva sedazione. Così quella che inizialmente sembrava una lieve modificazione strutturale dell’antistaminico prometazina, portò alla scoperta di una nuova classe di farmaci che ha dato un rinnovamento radicale nella terapia e nella vita dei pazienti schizofrenici.
L’efficacia clinica delle fenotiazine venne dimostrata molto prima della comprensione del loro meccanismo d’azione. Ricerche farmacologiche mostrarono in seguito che questi farmaci erano in grado di bloccare l’azione di molti mediatori, tra cui  l’istamina, le catecolamine, l’acetilcolina e la serotonina e fu proprio questa molteplicità di azioni a determinare il nome commerciale di Largactil® per la clorpromazina.
Nell’uomo, i neurolettici fenotiazinici e i tioxantenici, riducono l’iniziativa, l’interesse per quello che lo circonda, la risposta emotiva, la rapidità di reazione agli stimoli esterni e causano un certo stato confusionale. Ciò si traduce nei pazienti psicotici in un minor stato di agitazione, irrequietezza e di impulsività.
L’azione antipsicotica è prodotta dalla capacità di bloccare i recettori D2 nel sistema mesolimbico-mesocorticale e per spiegare ciò è opportuno confrontare le strutture complesse e rigide di questi farmaci policiclici con quella della dopamina.
Nella conformazione preferita, la catena laterale della fenotiazina tende ad orientarsi verso l’atomo di cloro presente sull’anello aromatico in posizione 2. Tale atomo di cloro non solo rende la molecola asimmetrica, ma fa sì che tale orientazione determini una parziale sovrapposizione tra la struttura della fenotiazina e quella della dopamina; si spiega così perché nella maggioranza dei casi, all’assenza dell’atomo di cloro corrisponda la mancanza di attività neurolettica.
Altra importante caratteristica strutturale è la lunghezza della catena laterale basica: le due funzioni azotate devono esser separate da una catena a 3 atomi di C, il che spiega la minor attività come neurolettico dell’antistaminico prometazina (ne ha 2).
I neurolettici convezionali della classe dei BUTIRROFENONI sono stati invece scoperti da Janssen nel corso di ricerche tese a potenziare l’attività analgesica della meperidina; dai primi derivati, venne poi eliminata mediante modifiche strutturali la componente morfinica e potenziata quella neurolettica fino ad arrivare all’ALOPERIDOLO (Serenase®).

I butirrofenoni dotati di attività neurolettica presentano la seguente formula generale:


La presenza di un gruppo amminico terziario dopo quattro atomi di carbonio della catena acilica è essenziale per la loro azione; a livello di questa funzione azotata terziaria, che generalmente è un ciclo a 6 termini (piperidinico, tetraidropiridinico e piperazinico) sono possibili modifiche con sostituenti in posizione 4.
Inoltre la loro attività è incrementata da un atomo di fluoro in posizione para nell’anello benzenico ed è diminuita dalla sostituzione del cheto gruppo.
Anche l’azione antipsicotica di questa classe di farmaci è prodotta dall’antagonismo verso i recettori D2 nel sistema mesolimbico-mesocorticale.
In genere, con queste tre classi di farmaci si procede con una terapia di attacco che consiste in 3-4 dosi al giorno per poi impiegare una terapia di mantenimento di una dose al giorno prima di andar a letto in modo da indurre il sonno ed evitare la sonnolenza diurna.
Tuttavia, non essendo nessuno di essi antidopaminergici puri si avranno effetti collaterali che possono colpire il SNC, il SNA e il sistema endocrino.
A livello del SNC il blocco dei recettori dopaminergici causa una serie di reazioni extrapiramidali che comprendono sindrome parkinsoniana e  irrequietezza incontrollabile (acatisia). Successivamente per blocco dei recettori colinergici si verifica discinesia, mentre il blocco dei recettori dell’istamina causa sonnolenza.
A livello del SNA per blocco dei recettori muscarinici si avrà perdita dell’accomodazione visiva, bocca secca, difficoltà ad urinare e stipsi, mentre per blocco dei recettori α adrenergici si avrà ipotensione ortostatica, impotenza, mancanza di eiaculazione.
A livello endocrino il blocco dei recettori dopaminergici della via tubero-infundibolare causa iperprolattinemia la quale, nella donna può dar luogo a disturbi mestruali, infertilità, perdita della libido fino ad osteoporosi per carenza di estrogeni, mentre nell’uomo può portare a ginecomastia, perdita della libido, ridotta spermatogenesi fino a osteoporosi da carenza di testosterone.
A causa di questi sintomi collaterali, per i quali non si ha tolleranza ma solo regressione per sospensione, la terapia antipsicotica non è piacevole e spesso viene sospesa con un aumento dei casi delle ricadute del 53% e rischio di suicidio per i pazienti.
Gli effetti collaterali causati da questi farmaci hanno sicuramente contribuito a promuovere la ricerca e lo sviluppo di nuove molecole che vengono appunto definite atipiche o non convenzionali.
Questa classe di farmaci, comprende molecole chimicamente varie, accumunate da avere caratteristiche farmacodinamiche peculiari: una affinità relativamente più alta per i recettori serotoninergici 5-HT2A, adrenergici e istaminergici (profilo multi recettoriale), rispetto ai dopaminergici D1 e D2; una maggiore affinità per i recettori D2 mesolimbici e mesocorticali rispetto a quelli nigrostriatali; una rapida cinetica di dissociazione sufficiente a determinare l’effetto terapeutico, ma non gli effetti indesiderati.
Tutto ciò si traduce in minor effetti collaterali, soprattutto quelli extrapiramidali, e quindi una maggiore compliance da parte del paziente. In particolare l’uso delle molecole atipiche  non provoca iperprolattinemia, un importante effetto collaterale legato all’uso dei farmaci antipsicotici classici e che comporta una serie di disfunzioni sessuali e riproduttive; ciò è correlabile al ridotto blocco dei recettori dopaminergici D2 che controllano in maniera inibitoria il rilascio della prolattina a livello tubero-infundibolare. Tuttavia, la minor incidenza di effetti collaterali non costituisce l’unico vantaggio di questa classe di farmaci: queste molecole, infatti, si sono dimostrate attive, almeno parzialmente, nei pazienti che non rispondevano alla terapia con gli antipsicotici classici, contrastando i deficit cognitivi dei pazienti schizofrenici. Ultimamente, tuttavia, è stato riscontrato un aumento di peso con l’impiego di questi farmaci, il che si presenta in modo più marcato nei soggetti con BMI inizialmente basso e nelle prime settimane di trattamento, raggiungendo un plateau dopo circa 9 mesi.
Tra gli antipsicotici atipici abbiamo derivati dibenzodiazepinici, dibenzotiazepinici e le benzammidi.
I DERIVATI DIBENZODIAZEPINICI, il cui capostipite è la CLOZAPINA (Leponex®), a cui si affianca anche la OLANZAPINA (Zyprexa®), mostrano un ampio profilo recettoriale in quanto in grado di agire con i recettori del sistema dopaminergico, serotoninergico, colinergico e adrenergico,; essi, inoltre, non solo presentano una minor affinità verso il D2 (<70%) ma danno una occupazione di questo recettore per un breve lasso di tempo, sufficiente a dare l’azione anti-psicotica e a permettere a questi recettori di essere fisiologicamente responsivi alla dopamina endogena.
Le reazioni avverse più comuni sono a carico del SNC (sonnolenza, sedazione), del SNA (secchezza delle fauci, scialorrea, sudorazione) e del sistema cardiovascolare (tachicardia, ipotensione). Tuttavia, l’incidenza piuttosto alta di agranulocitosi limita seriamente l’impiego clinico. 


Analogamente alla clozapina, anche la QUETIAPINA (Seroquel®), facente parte dei DERIVATI DIBENZOTIAZEPINICI,  presenta una cinetica rapida di dissociazione dal recettore D2 ma ha anche una ulteriore minore affinità per questi recettori (< 60%).

La classe delle BENZAMMIDI sostituite, si può considerare derivata, almeno come filiazione, dagli acidi p-amminobenzoico e p-amminosalicilico. Il capostipite può considerarsi la METOCLOPRAMIDE (Plasil®) che, accanto all’attività antiemetica, possiede una precisa attività antidopaminergica centrale, tradotta successivamente in antipsicotica. Da questo prototipo deriva la sulpiride.

La SULPIRIDE (Dobren®) e l’AMISULPIRIDE agiscono come antagonisti D2 e vengono usate, in dosi standard per il trattamento della psicosi, mentre a dosi basse, per il trattamento della depressione a causa della inibizione dei recettori D2 presinaptici che aumenta l’attività dopaminergica.
Altri psicotici non appartenenti alle classi appena viste sono il risperidone, l’aripiprazolo e  la reserpina.
In Italia il RISPERIDONE (Risperdal®)  è in vendita in compresse da 1 (bianche), 2 (arancioni), 3 (gialle) e 4 (verdi) mg e gocce orali da 1 mg/ml; solo in compresse dello stesso dosaggio come Belivon®.
L’ARIPIPRAZOLO (Abilify®) si comporta da parziale agonista ai recettori dopaminergici prevenendo il legame della dopamina ma nello stesso tempo determinando una certa attivazione che è fisiologicamente rilevante anche se molto più debole di quella causata dalla dopamina endogena. In questo modo l’iperattività del recettore postsinaptico viene modulata e stabilizzata ma non completamente bloccata.
La RESERPINA, un alcaloide indolico isolato dalla Rauwolfia serpentina, è stato il primo farmaco per il quale è stata dimostrata un’azione sul sistema nervoso simpatico che ne ha permesso un ampio impiego nella terapia farmacologia delle psicosi e dell’ipertensione, anche se la messa a punto di composti più efficaci con effetti indesiderati considerevolmente più contenuti la rende un farmaco obsoleto che ha al momento solo un interesse storico. Essa si lega strettamente alle vescicole adrenergiche a livello dei neuroni adrenergici centrali e periferici andando a inibire il trasporto vescicolare di questo neurotrasmettitore; il risultato finale è una simpatectomia farmacologica con un recupero della funzionalità simpatica che richiede la sintesi di altre vescicole di deposito, per la quale sono necessari giorni o settimane dall’interruzione del trattamento con reserpina. 

BIBLIOGRAFIA
  • Goodman & Gilman Le basi farmacologiche della terapia Mc Graw Hill ed
  • Rang Y Dale Farmacologia Elsevier ed
  • Katzung Farmacologia Generale e Clinica Piccin ed.
  • Foye, Lemke, Williams Principi di chimica farmaceutica Padova ed.
  • Appunti di lezione della Professoressa Tita
  • http://www.iss.it/binary/publ/publi/0232.1109328163.pdf 

martedì 20 gennaio 2015

Malattia di Alzheimer




La MALATTIA di ALZHEIMER è una malattia degenerativa progressiva del cervello caratterizzata dalla perdita delle capacità di acquisire nuove informazioni e di ricordare nozioni acquisite precedentemente.
La patologia è stata descritta per la prima volta nel 1906 dallo psichiatra e neurologo tedesco Alois Alzheimer e inizialmente venne identificata come malattia rara; attualmente, invece, si stima ne soffrano circa 500.000 persone in Italia e 26.6 milioni nel mondo, con una netta prevalenza di donne (per via della maggior vita media rispetto agli uomini). A livello epidemiologico, tranne che in rare forme  genetiche familiari early-onset (cioè a esordio giovanile), il fattore maggiormente correlato all’incidenza della patologia è l’età: molto rara sotto i 65 anni, la sua incidenza aumenta progressivamente con l’età, per raggiungere una diffusione significativa nella popolazione oltre gli 85 anni.

Definita anche "demenza di Alzheimer", viene appunto catalogata tra le demenze, essendo un deterioramento cognitivo cronico progressivo, e tra tutte le demenze è la più comune, rappresentando l’80-85% di tutti i casi.
Essa differisce dalla perdita di memoria che spesso si verifica in età avanzata in quanto va ad incidere anche sul comportamento, la personalità, le capacità cognitive e le abilità quotidiane della persona.
Infatti, anche se il decorso clinico della malattia è in parte specifico per ogni individuo, la patologia causa diversi sintomi comuni alla maggior parte dei pazienti: la prima manifestazione clinica (fase I, demenza lieve) è un deficit di memoria circoscritto a sporadici episodi della vita quotidiana, ovvero disturbi di quella che viene chiamata on-going memory (ricordarsi cosa si è mangiato a pranzo, cosa si è fatto durante il giorno) e della memoria prospettica (che riguarda l’organizzazione del futuro prossimo, come ricordarsi di andare ad un appuntamento); poi man mano il deficit aumenta (fase II, demenza moderata)  e la perdita della memoria arriva a colpire anche la memoria episodica retrograda (riguardante fatti della propria vita o eventi pubblici del passato) e la memoria semantica (le conoscenze acquisite), mentre la memoria procedurale (che riguarda l’esecuzione automatica di azioni) viene relativamente risparmiata fino alle fasi intermedio-avanzate della malattia.
A partire dalle fasi lievi e moderate possono poi manifestarsi crescenti difficoltà di produzione del linguaggio, con incapacità nella definizione di nomi di persone od oggetti, e frustranti tentativi di "trovare le parole", seguiti poi nella fase III o demenza grave, da disorganizzazione nella produzione di frasi e uso sovente scorretto del linguaggio (confusione sui significati delle parole, ecc.). 
Sempre nelle fasi lievi-moderate, la pianificazione e gestione di compiti complessi (gestione di documenti, attività lavorative di concetto, gestione del denaro, guida dell'automobile, cucinare, ecc.) cominciano a diventare progressivamente più impegnative e difficili, fino a divenire impossibili e richiedere assistenza continuativa.
Nelle fasi moderate e avanzate, inoltre, possono manifestarsi problematiche comportamentali (vagabondaggio, coazione a ripetere movimenti o azioni, reazioni comportamentali incoerenti) o psichiatriche (confusione, ansia, depressione, e occasionalmente deliri e allucinazioni) fino ad arrivare ad un disorientamento nello spazio, nel tempo o nella persona (ovvero la mancata o confusa consapevolezza di dove si è situati nel tempo, nei luoghi e/o nelle identità personali, proprie o di altri - comprese le difficoltà di riconoscimento degli altri significativi). In tali fasi si aggiungono difficoltà progressive anche nella cura della persona (lavarsi, vestirsi, assumere farmaci, ecc.).
Pertanto, col progredire della malattia, le persone  non solo presentano deficit di memoria, ma risultano deficitarie nelle funzioni strumentali mediate dalla corteccia associativa e possono pertanto presentare afasia (perdita di capacità di produrre o comprendere il linguaggio) e aprassia (incapacità di compiere gesti coordinati e diretti a un determinato fine), fino a presentare disturbi neurologici e poi internistici che portano ad una compromissione progressiva della salute.
Da tutto ciò deriva che per la sua ampia e crescente diffusione nella popolazione, la limitata e comunque non risolutiva efficacia delle terapie disponibili, e le enormi risorse necessarie per la sua gestione (sociali, emotive, organizzative ed economiche) che ricadono in gran parte sui familiari dei malati, a loro volta sottoposti ai forti stress tipici di chi assiste tali malati, rendono la malattia di Alzheimer una delle patologie a più grave impatto sociale del mondo.
Anche se la diagnosi clinica viene confermata a livello patologico solo con l’analisi istologica del tessuto del cervello post-mortem, la malattia di Alzheimer viene diagnosticata clinicamente dalla storia del paziente, da osservazioni cliniche, dalla presenza di particolari caratteristiche neurologiche e neuropsicologiche, dall’impiego di sistemi avanzati di imaging biomedico e dall’esclusione di altre patologie cerebrali o altri tipi di demenza.
Diverse organizzazioni mediche hanno creato i criteri diagnostici per facilitare e standardizzare il processo diagnostico. Lo statunitense National Institute of Neurological Disorders and Stroke (NINCDS) e l'Associazione dei Malati di Alzheimer ha istituito il criterio diagnostico NINCDS-ADRDA nel 1984, in seguito aggiornato nel 2007. Questo criterio richiede che per definire la diagnosi di Alzheimer, la presenza di deficit cognitivi e la sospetta sindrome di demenza debbano esser confermati da test di screening neuropsicologici in grado di valutare diverse funzioni e competente cognitive, come il saper copiare disegni simili a quelli mostrati in alcune foto, ricordare parole, leggere e sottrarre numeri in serie. Colloqui con i membri della famiglia sono inoltre utilizzati nella valutazione funzionale della malattia in quanto permettono di fornire informazioni sulla capacità di vita quotidiana, così come la diminuzione, nel tempo, della funzione mentale della persona: il punto di vista di chi assiste il malato, infatti, è particolarmente importante, dato che una persona con Alzheimer è spesso inconsapevole del suo deficit. 
Altri test clinici supplementari forniscono informazioni aggiuntive su alcune caratteristiche della malattia, o vengono utilizzati per escludere altre diagnosi. È comune eseguire test di funzionalità tiroidea, valutare i livelli di vitamina B12, escludere la sifilide, escludere problemi metabolici (tra cui test per la funzione renale, i livelli di elettroliti e per il diabete), valutare i livelli di metalli pesanti (ad esempio il piombo e il mercurio), e l'anemia. È anche necessario escludere la presenza di sintomatologia psichiatrica, come deliri, disturbi dell'umore, disturbi del pensiero di natura psichiatrica, o pseudodemenze depressive.
In particolare vengono utilizzati test psicologici per la rilevazione della depressione, dal momento che la depressione può essere concomitante con l'Alzheimer, essere un segno precoce di deficit cognitivo, o esserne addirittura la causa. 
In associazione con le valutazioni dello stato mentale, la tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) e la Tomografia a emissione di positroni (PET), possono essere utilizzati per la conferma di una diagnosi di Alzheimer. Una nuova tecnica nota come PiB PET è stata sviluppata per visualizzare direttamente e chiaramente immagini di depositi di beta-amiloide (di cui parleremo dettagliatamente dopo) in vivo, utilizzando un radio tracciante (il carbonio 11) che si lega selettivamente ai depositi A-beta; studi recenti suggeriscono che la PiB-PET è precisa all'86% nel predire quali persone, già affette da decadimento cognitivo lieve, svilupperanno la malattia di Alzheimer entro due anni, e al 92% in grado di escludere la probabilità di sviluppare il morbo di Alzheimer
In fase di studio, anche perché meno costosa di altre tecniche di imaging è la risonanza magnetica volumetrica che è in grado di rilevare cambiamenti nella dimensione delle regioni del cervello visto che l’atrofia di alcune regioni si sta mostrando come un indicatore diagnostico della malattia.
Infatti, se analizziamo la sua patogenesi, la malattia di Alzheimer è caratterizzata da una GRAVE ATROFIA della CORTECCIA CEREBRALE e dalla PERDITA dei NEURONI CORTICALI e SOTTOCORTICALI.
In sezione laterale un cervello colpito da malattia di Alzheimer mostra una diminuzione del volume (atrofia), della massa di alcune regioni cerebrali e un solco allargato, mentre in sezione trasversa si può notare una dilatazione dei ventricoli, un allargamento e approfondimento dei solchi e delle scissure, una riduzione dei giri, ma sopratutto una atrofia e degenerazione simmetrica fronto-tempero-parietale dei neuroni colinergici sottocorticali, in particolare i nuclei di Meynert, che supportano, essendo fonti di acetiltransferasi, l'innervazione colinergica di tutta la corteccia.



Tutto ciò spiega il motivo per cui dall’analisi del contenuto di neurotrasmettitori nella corteccia si sia evidenziato un notevole e sproporzionato deficit di acetilcolina nei pazienti affetti da questa malattia.
Il deficit selettivo di acetilcolina così come l’osservazione che gli antagonisti colinergici centrali, quali l’atropina, possono indurre uno stato confusionale somigliante con quello della malattia, ha dato vita alla cosiddetta IPOTESI COLINERGICA in cui tale deficit è visto come una delle cause del declino cognitivo e della comparsa dei sintomi comportamentali come psicosi, agitazione, apatia-indifferenza, disinibizione, comportamenti motori aberranti.
Il tentativo di aumentare la funzione colinergica nei pazienti affetti da Alzheimer per stabilizzare e/o aumentare le funzioni cognitive e influenzare il comportamento, ha costituito uno dei più importanti approcci farmacologici per il trattamento della malattia.
Inizialmente si sono usati PRECURSORI della SINTESI di ACETILCOLINA, come la COLINA CLOROIDRATO e FOSFATIDILCOLINA (Lecitina) che, sebbene ben tollerati, non hanno avuta alcuna efficacia significativa.
L’iniezione intracerebroventricolare di AGONISTI COLINERGICI, come il BETANECOLO, sembra aver effetti benefici, ma questo trattamento, richiedendo l’impianto chirurgico di un sistema a rilascio connesso con lo spazio subaracnoideo, è troppo invasivo per avere utilità pratica.
Una strategia più fortunata è stata quella di usare INIBITORI dell’ACETILCOLINESTERASI, enzima catabolico dell’acetilcolina. Il primo ad esser impiegato è stata la FISOSTIGMINA, un inibitore reversibile ad azione rapida che produce un miglioramento delle risposte di apprendimento in modelli animali e un leggero miglioramento della memoria in pazienti affetti da Alzheimer; tuttavia, il suo uso è limitato dalla breve emivita e dalla tendenza a sviluppare a dosi terapeutiche un eccesso di attività colinergica.
Attualmente gli inibitori dell’acetilcolinesterasi approvati sono: la tacrina, il donezepil, la rivastigmina e la galantamina.
La TACRINA (Cognex®) è un potente inibitore centrale dell’acetilcolinesterasi con emivita di 3-5 h che viene metabolizzata dal CYP1A2. Studi sulla somministrazione per via orale di tale sostanza in associazione con la lecitina hanno dimostrato un effetto seppur modesto su alcuni parametri della prestazione mnemonica, tuttavia i suoi effetti collaterali sono spesso significativi: nell’ambito delle dosi terapeutiche (40-60 mg/die) in più di 1/3 dei pazienti si sono osservati crampi addominali, anoressia, nausea, vomito e diarrea, a volte alleviati dall’assunzione di cibo, mentre in più del 50% dei pazienti si è osservato un aumento di circa 3 volte delle transaminasi, il che ne ha limitato l’impiego e la non approvazione all’uso in Italia.
Il DONEPEZIL (Aricept®) è stato il primo farmaco con azione selettiva sull’acetilcolinesterasi del cervello e non su quella periferica. Induce un aumento delle capacità cognitive e delle funzioni globali in pazienti con Alzheimer lieve-moderato e ha una lunga emivita (70h), che permette di effettuare un’unica somministrazione giornaliera (5-10 mg). Ben assorbito per via orale con buona biodisponibilità, viene metabolizzato da CYP3A e CYP2D6 e eliminato per via renale e fecale. E’ ben tollerato anche se a dosi alte sono associabili effetti avversi colinergici.
La RIVASTIGMINA (Exelon®) e la GALANTAMINA (Reminyl®) somministrate rispettivamente in dosi 3-12 mg/die e 20-50 mg/die hanno dimostrato di produrre miglioramento cognitivo e comportamentale simile. La prima viene assorbita per via orale, presenta emivita di 1.5 h e metabolizzazione indipendente dal CYP; pur se ben tollerata può dare effetti collaterali gastro-intestinali, compresa la perdita di peso, osservabili maggiormente con la concomitante assunzione di cibo.
L’azione della seconda sembra implicare oltre all’inibizione competitiva dell’acetilcolinesterasi anche una modulazione allosterica dei recettori nicotinici pre- e post-sinaptici che può determinare un aumento del rilascio di acetilcolina e di altri neurotrasmettitori. Somministrata in dose di 20-50 mg/die, migliora sia la capacità cognitiva che il comportamento e sembra avere effetti neuroprotettivi.
Gli effetti avversi riscontrati sono la perdita di peso nel 5% dei pazienti e la nausea associabile all’inizio del trattamento e all’aumento di dose ma che è comunque transitoria e raramente grave.
Pertanto, tutti e quattro i farmaci ad azione anticolinesterasica sono efficaci nel trattamento dell’Alzheimer lieve-moderato e vanno usati con cautela nei pazienti infartuati. 
Poco si conosce sui loro effetti a lungo termine ma si è constatato che il trattamento con essi, pur ritardandola, non ferma la progressione della malattia e ciò ha portato alla necessità di analizzare nuovi composti.
Quelli attualmente in fase di studio sono altri agenti colinergici, come la xanomellina, un agonista M1 e M2, ma anche agenti che hanno un diverso approccio farmacologico come la MEMANTINA (Namenda®), un NMDA antagonista non competitivo, che ha mostrato di rallentare la progressione in pazienti con Alzheimer moderatamente grave.
Un nuovo approccio terapeutico è derivato dall’identificazione a livello microscopico nel cervello dei malati di Alzheimer di due caratteristiche morfologiche distintive: i gomitoli neuro fibrillari intracellulari, costituiti dai filamenti ad elica appaiati formati dalla forma fosforilata della proteina tau associata ai microtubuli intracellulari, e le placche amiloidi o senili costituite dai depositi di proteina β amiloide (Aβ). 

Tali depositi sono più abbondanti nell’ippocampo e nelle regioni associative della corteccia (area viola: abilità linguistiche, aria verde: memoria, area rossa: capacità cognitive e mantenimento nuove informazioni), mentre le aree della corteccia visiva e motoria sono risparmiate e ciò coincide con le caratteristiche cliniche della malattia di grave compromissione della memoria e del ragionamento astratto in presenza di normali funzioni visive e motorie.

Sebbene, anche in individui intellettualmente normali siano osservabili un numero limitato di placche e gomitoli, essi sono notevolmente più abbondanti nel cervello di pazienti con Alzheimer e tale abbondanza è correlata grosso modo alla gravità della compromissione cognitiva, essendo più numerosi negli stati avanzati della malattia.
Tutto ciò ha suggerito che la formazione e la deposizione di placche e gomitoli possa avere un ruolo chiave nella patogenesi dell’Alzheimer e che ciò possa esser causato da un taglio anomalo della proteina β amiloide dal suo precursore, APP. Tale conclusione è nata dall’analisi genetica di famiglie con una rara forma di Alzheimer famigliare, nelle quali sono state scoperte mutazioni del gene per APP o di altri geni che controllano la sua degradazione e dall’evidenza che la localizzazione del gene per APP sul cromosoma 21 spiega la precoce demenza simil Alzheimer che si ha nella sindrome di Down nella quale tale cromosoma è espresso in duplice copia con conseguente aumentata espressione di APP.
Il precursore della proteina amiloide (APP) è una proteina di 677-670 amminoacidi, largamente espressa nel cervello, le cui funzioni non sono ancora del tutto chiarite anche se le sue caratteristiche strutturali (espressione sulla superficie cellulare con un unico dominio di transmembrana) hanno suggerito che possa essere un recettore di superficie per un non ancora ben identificato ligando che svolge normalmente un ruolo importante nella crescita e riparazione dei neuroni.
L’elemento più importante di APP sono i diversi passaggi della sua degradazione distinta in amiloidogenica e non amiloidogenica nella quale sono coinvolte tre proteasi, α, β e γ, la cui azione e specificità definisce il ruolo fisiologico o patogeno di APP.
La maggior parte delle molecole di APP sono tagliate in successione dall’ α secretasi e dalla γ secretasi dando luogo alla degradazione non amiloidogenica che porta ad un frammento P3 innoquo.
Dal taglio in successione della β e γ secretasi si origina invece un frammento amiloidogenico Aβ che è formato da 40 amminoacidi (Aβ40), se la γ secretasi taglia in posizione 711, e di 42 amminoacidi (Aβ42) se la γ secretasi taglia in posizione 713; quest’ultima forma ha una forte tendenza ad aggregarsi e va a costituire il maggior componente delle placche. Infatti, un aumento nella produzione di Aβ42 innesca l’accumulo di aggregati di questo peptide, del peptide Aβ40 e di altre componenti come i proteoglicani andando a formare le placche. Ciò attiva una risposta infiammatoria di microglia e astrociti con produzione di citochine e danno cellulare con alterazione dell’omeostasi ionica, maggiore sensibilità dei neuroni all’eccitotossicità e allo stress ossidativo con conseguente disfunzione neuronale. Inoltre, lo squilibrio nel bilancio tra chinasi e fosfatasi porta ad una iperfosforilazione delle proteine tau e ad un danno neuronale esteso, con compromissione dell’attività dei neurotrasmettitori, in primis acetilcolina, che provoca la demenza. 
Le mutazioni di APP nelle regioni in cui avviene il taglio operato dalle γ secretasi possono favorire la formazione di Aβ42 così come mutazioni nei geni delle preseniline 1 e 2 causano un aumento dell’attività delle γ-secretasi dato che tali proteine controllano l’accesso dell’enzima al dominio di trans membrana di APP; tutte queste mutazioni aumentano il rapporto Aβ42/Aβ40 che può essere rivelato nel plasma e serve come marker per l’Alzheimer familiare.
Anche mutazioni nel gene per l’apolipoproteina E4 sembrano predisporre all’Alzheimer probabilmente perché le proteine APO E4 anomale facilitano l’aggregazione di Aβ42 o perché possono provocare un aumento di incidenza di aterosclerosi con conseguente ipoperfusione e/o ischemia cerebrale. Infatti, l’ipoperfusione, causata da eventuali danni cardiovascolari, è considerata in base a studi epidemiologici, un  fattore di rischio in quanto riducendo l’apporto di O2 induce disfunzione mitocondriale che da un lato porta alla formazione di radicali liberi e all’istaurarsi di un processo infiammatorio, dall’altro riduce la produzione di ATP con disfunzione dei processi che richiedono energia: il tutto porta a una neurodegenerazione.
Data l’importanza che hanno questi meccanismi è sotto studio una STRATEGIA TERAPEUTICA ANTIAMILOIDE con diversi possibili bersagli: innanzitutto si è pensato di attaccare la degradazione di APP con composti inibitori delle β e γ secretasi e attivatori delle α secretasi, così come si è pensato all’immunoterapia per attaccare gli aggregati Aβ. Nel 1999 Schenk ha mostrato che immunizzando un topo con una iniezione cronica di Aβ umana, si poteva prevenire la formazione di depositi di tale proteina, mentre se l’immunizzazione veniva eseguita dopo che la deposizione di Aβ era già avvenuta (attraverso immunizzazione passiva con anticorpi contro Aβ) si poteva indurre una riduzione delle placche.
Si è pensato, inoltre di usare le statine, essendo il metabolismo del colesterolo coinvolto nella generazione di Aβ, oppure avere un approccio neuroprotettivo che ha  come bersaglio quei meccanismi secondari all’aggregazione di Aβ, ad esempio impiegando farmaci antinfiammatori non steroidei o la vitamina E come antiossidante. Infine si è ipotizzato l’uso di FIBROBLAST GROWTH FACTOR 2 per stimolare lo sviluppo di nuovi neuroni da cellule staminali sempre presenti nel cervello così da agire nella malattia con ripristino dell’attività neuronale.
Oltre alle molecole e strategie di intervento delineate, sono state variamente proposte altre ipotesi di intervento farmacologico, con evidenze cliniche di efficacia però ancora insufficienti o non confermate. Tra esse, una ipotesi complementare di approccio alla patologia è quella legata all’uso di FANS, visto che nell’Alzheimer è presente una dinamica infiammatoria che danneggia i  neuroni. Si è anche notato che le donne in cura post-menopausale con farmaci estrogeni presentano una minor incidenza della patologia (infatti gli estrogeni bloccano la morte neuronale indotta dalla proteina beta-amiloide). Alcuni ricercatori avrebbero messo in evidenza anche la potenziale azione protettiva della vitamina E
(alfa-tocoferolo), che sembrerebbe prevenire la perossidazione lipidica delle membrane neuronali causata dal processo infiammatorio; ma ricerche più recenti non hanno confermato l'utilità della vitamina E (né della vitamina C) nella prevenzione primaria e secondaria della patologia, sottolineando anzi i potenziali rischi sanitari legati all'eccessiva e prolungata assunzione di vitamina E.
Sul processo neurodegenerativo può intervenire anche l'eccitotossicità, ossia un'eccessiva liberazione di acido glutammico che induce un aumento del calcio libero intracellulare, il quale è citotossico. Si è quindi ipotizzato di usare farmaci antagonisti del glutammato, come ad esempio inibitori dei recettori NMDA, ma anche questi ultimi presentano notevoli effetti collaterali.
Sono presenti sul mercato farmaci NOOTROPI, per definizione molecole che hanno effetti positivi sulla mente, come il Piracetam (Nootropil®): questo farmaco è in grado di stimolare il recettore metabotropico AMPA dell’acido glutammico; anche se questo parrebbe in netta contrapposizione a quanto detto sopra, si deve tenere presente che comunque tale neurotrasmettitore è direttamente implicato nei processi di memorizzazione e di apprendimento per cui è stato ipotizzato che aumentandone la quantità si possa contribuire a migliorare i processi cognitivi. Anche in questo caso, l'evidenza clinica di efficacia è scarsa.
Ultimo approccio ipotizzato è l'uso di Pentossifillina e Diidroergotossina i quali sembrano migliorare il flusso ematico cerebrale, permettendo così una migliore ossigenazione cerebrale, e un conseguente miglioramento delle performance neuronali. Sempre per lo stesso scopo è stato proposto l'uso del Gingko biloba.
Gli studi pionieristici di Rita Levi Montalcini hanno portato alla scoperta, caratterizzazione e purificazione del fattore di crescita nervoso (Nerve Growth Factor, NGF), una proteina essenziale per lo sviluppo e la sopravvivenza di cellule nervose. L’NGF fa parte di una famiglia di recettori neutrofici, le neutrofine, che sono coinvolte non soltanto durante lo sviluppo del sistema nervoso, ma anche in molteplici aspetti fondamentali della fisiologia del sistema nervoso adulto. Il suo uso terapeutico è quindi basato sul fatto che le cellule neuronali colinergiche, che degenerano nella patologia di Alzheimer, sono cellule bersaglio del NGF. La somministrazione della molecola NGF per via oculare, resa possibile dall’esistenza di una connessione anatomica tra cervello e sistema oculare, rappresenta una nuova strategia, non invasiva e in grado di aggirare la barriera cerebrale ma ancora tutta da scoprire.
Anche una terapia genica potrebbe alleviare i problemi di memoria legati alla malattia di Alzheimer: gli scienziati dell’Gladstone Institute of Neurological Disease di San Francisco hanno scoperto che incrementando nei topi la quantità di un neurotrasmettitore chiamato EphB2 si riuscirebbe a prevenire o impedire gli effetti sulla perdita di memoria provocati dalla patologia. Modificando il DNA con un gene che stimola la molecola, la capacita' cognitiva dei topi si e' dimostrata più efficiente, mentre riducendola si affievoliva. Lennart Mucke, autore dello studio pubblicato su Nature, spiega il meccanismo: ''Pensiamo che bloccando la proteina amiloide nel legarsi con EphB2 e migliorandone i livelli e la funzionalità anche attraverso un farmaco, si potrebbero offrire benefici per la malattia di Alzheimer''.

BIBLIOGRAFIA
  • Goodman & Gilman Le basi farmacologiche della terapia Mc Graw Hill ed
  • Rang Y Dale Farmacologia Elsevier ed
  • Katzung Farmacologia Generale e Clinica Piccin ed.
  • Foye, Lemke, Williams Principi di chimica farmaceutica Padova ed.
  • Appunti di lezione della Professoressa Tita
  • Appunti di lezione della Professoressa Ziche
  • Struttura delle molecole www.wikipedia.it
  • http://parkinson.musiogianfranco.it/Malattia%20di%20Alzheimer.pdf 

venerdì 16 gennaio 2015

Malattia di Parkinson





Il parkinsonismo è una sindrome clinica che comprende 4 caratteristiche principali: tremore a riposo che scompare durante i movimenti volontari, rigidità muscolare, alterazione del movimento volontario con globale riduzione della motilità (acinesia), lentezza (bradicinesia) e riduzione dell’ampiezza (ipocinesia);dei movimenti; successivamente interviene la compromissione del bilanciamento posturale e dell’equilibrio che determinano disturbi della deambulazione (passo strascicato) e cadute.



La causa più comune di parkinsonismo è la MALATTIA di PARKINSON idiopatica, descritta per la prima volta da James Parkinson nel 1817 come “paralisi agitante”, ma possono portare a sintomi analoghi anche alcune patologie neurodegenerative rare, l’ictus e l’intossicazione da farmaci bloccanti dei recettori dopaminergici come antipsicotici (aloperidolo, clopromazina) e antiemetici (metoclopramide). Inoltre, considerando che tra i fattori intrinseci legati a questa malattia neurodegenerativa c’è lo stress ossidativo, farmaci che possono esacerbare tale fattore, come ad esempio l’ antiepilettico acido valproico che presumibilmente interferisce con il funzionamento del complesso respiratorio I, vanno sospesi in presenza di segni di parkinsonismo.
La malattia di Parkinson idiopatica è la seconda malattia neurodegenerativa più diffusa dopo la malattia di Alzheimer, andando a colpire l’1% della popolazione sopra i 60 anni e il 4% della popolazione sopra gli 80 anni. Alcuni studi hanno proposto che sia più comune negli uomini rispetto alle donne, ma altri non hanno rilevato particolari differenze tra i due sessi. La malattia, inoltre, sembra essere meno diffusa nelle razze con maggiore melanina probabilmente in quanto questo pigmento è in grado di legare l’MPTP, una potente tossina implicata nella patogenesi.
La caratteristica neuropatologica della malattia di Parkinson è la degenerazione del sistema extrapiramidale, sostenuta dalla DEGENERAZIONE dei NEURONI DOPAMINERGICI PIGMENTATI della SUBSTANTIA NIGRA del CORPO STRIATO (a livello mesencefalico), DEPUTATI AL CONTROLLO FINE dei MOVIMENTI VOLONTARI, e NORMALMENTE CONTROBILANCIATI dai NEURONI COLINERGICI, con la COMPARSA di INCLUSIONI INTRACELLULARI NOTE COME CORPI di LEWY*

 


*I corpi di Lewy sono degli aggregati proteici di forma sferica che si presentano in due varianti morfologiche: quelli sottocorticali (localizzati principalmente nel tronco encefalico) sono rappresentati da un’inclusione citoplasmatica eosinofila consistente di un nucleo denso circondato da un alone fibrillare radiale di 10 nm, il cui principale componente strutturale è l’alfa-sinucleina associata ad altre proteine (ubiquitina e alfa B cristallina); quelli corticali sono corpi meno definiti e non presentano aloni ma sono sempre costituiti da fibrille di alfa-sinucleina.

La perdita progressiva dei neuroni dopaminergici è una caratteristica normale dell’invecchiamento ma nella maggior parte della popolazione tale perdita non raggiunge il 70-80% che è causa dell’insorgenza dei sintomi della malattia parkinsoniana. In genere la malattia è caratterizzata da due fasi: una fase perisintomatica, caratterizzata dalla perdita dei neuroni dopaminergici della substantia nigra, e una fase sintomatica.
Se non curata la malattia di Parkinson progredisce in 5-10 anni fino allo stadio di acinesia rigida in cui il paziente è incapace di prendersi cura di sé e la morte avviene frequentemente per complicanze legate all’ immobilità. 
In genere il sintomo più evidente e precoce è il tremore, anche se va considerato che il 30% degli individui affetti da questa malattia all’ esordio non lo mostra. Il tremore è tipicamente a riposo, con bassa frequenza, scompare durante i movimenti volontari e in genere peggiora nelle situazioni di stress emozionale, mentre è assente durante il sonno. Esso è lieve ed è descritto come l’atto di “contare le monete” o pill-rolling, un termine che deriva dalla somiglianza tra il movimento nei pazienti e la tecnica usata in farmaceutica per preparare manualmente le pillole.
Tale  tremore coinvolge maggiormente la porzione più distale dell’arto e all’insorgenza, cioè nel primo stadio secondo la classificazione in 5 stadi fatta da Hoehn e Yahr, si presenta monolaterale in un braccio o in una gamba, per poi  divenire nello stadio II successivo bilaterale. La lentezza dei movimenti è il sintomo più invalidante dei primi stadi della malattia, in quanto è associata ad una difficoltà in tutto il processo del movimento, dalla pianificazione alla iniziazione e, infine, all’ esecuzione. Il movimento sequenziale e simultaneo viene ostacolato il che crea diversi problemi nell’esecuzione di quelle attività quotidiane che richiedono un controllo fine dei movimenti, come la scrittura, il cucito o il vestirsi; in particolare, durante la scrittura si manifesta tratto tremolante, difficoltà nei tratti rotondeggianti e micrografia.
La rigidità e la resistenza al movimento degli arti è invece causata da una contrazione eccessiva e continua dei muscoli e si manifesta nelle fasi iniziali in maniera asimmetrica andando ad influenzare i muscoli del collo e delle spalle, rispetto ai muscoli del viso e degli arti. La rigidità può essere associata a dolore articolare e tale dolore è una frequente manifestazione iniziale della malattia. La postura di un individuo con malattia di Parkinson tra lo stadio 1 e 3  della malattia è tipica: esso assume una postura fissa, in cui il tronco, le anche, le ginocchia e le caviglie sono flessi lievemente.
Tipica invece degli ultimi stadi è l’instabilità posturale che determina disturbi dell’equilibrio e frequenti cadute: la deambulazione avviene tipicamente mediante piccoli passi, strisciati, con avvio molto problematico e spesso si verifica il fenomeno della festinazione, cioè la progressiva accelerazione della camminata sino a cadere. Con il progredire della malattia la deambulazione risulta impossibile in quanto il paziente non può stare in posizione eretta, si possono avere disturbi della deglutizione con conseguente maggiore lentezza a consumare il pasto e la sensazione che cibo e saliva (scialorrea) si fermino in gola. Anche la mimica facciale progressivamente diventa scarsa e l’espressione impassibile (ipomimia).


STADIO
SCALA HOEHN e YAHR
SCALA HOEHN e YAHR MODIFICATA
1
Coinvolgimento unilaterale, solitamente con solo una minima o nessuna disabilità funzionale
Solo coinvolgimento unilaterale
1.5

Coinvolgimento unilaterale e assiale
2
Coinvolgimento bilaterale o mediano senza compromissione dell'equilibrio
Coinvolgimento bilaterale senza compromissione dell'equilibrio
2.5

Lieve coinvolgimento bilaterale senza recupero sul test a trazione
3
Coinvolgimento bilaterale da medio a moderato; alcune difficoltà posturali; fisicamente indipendente

4
Malattia gravemente debilitante, ancora in grado di camminare o stare in piedi senza assistenza
Grave disabilità; ancora in grado di camminare o stare in piedi senza assistenza
5
Costretto a letto o sulla sedi a rotelle


La SCALA di HOEHN e YAHR è usata comunemente per descrivere i sintomi della progressione della malattia di Parkinson: originariamente pubblicata nel 1967 sulla rivista Neurology è stata successivamente modificata con l’aggiunta degli stadi 1.5 e 2.5  per descrivere  il decorso intermedio della malattia

Oltre ai sintomi motori, la malattia di Parkinson determina anche problemi non motori sopratutto a livello neuropsichiatrico.
Tra i sintomi neuropsichiatrici abbiamo disturbi del linguaggio e deficit cognitivo di cui il più comune è la disfunzione esecutiva che può comprendere difficoltà nella pianificazione, nella flessibilità cognitiva, nel pensiero astratto, nell’ avvio di azioni appropriate e nell’ inibizione delle operazioni  inappropriate. Una persona con malattia di Parkinson ha da 2 a 6 volte il rischio di soffrire di demenza rispetto alla popolazione generale. Anche le alterazioni del comportamento e dell’umore sono più comuni nella malattia di Parkinson rispetto al resto della popolazione: i problemi più frequenti sono depressione, apatia, ansia, difficoltà nel controllo degli impulsi che può portare all’ abuso di farmaci, all’ alimentazione compulsiva, all’ ipersessualità, al gioco d’azzardo.
Infine, oltre ai sintomi cognitivi e motori, la malattia di Parkinson può compromettere altre funzioni dell’organismo: problemi di sonno sono una caratteristica della malattia; le alterazione del sistema nervoso autonomo possono portare a ipotensione ortostatica, pelle grassa (seborrea frontale), eccessiva sudorazione, incontinenza urinaria e alterata funzione sessuale; la costipazione e i disturbi della motilità gastrica possono essere importanti tanto da creare disagio e mettere in pericolo la vita del paziente.
Tutti questi sintomi,  a cui aggiungiamo anche movimenti saccadici (rapidi movimenti involontari degli occhi nella stessa direzione), secchezza oculare, alterazione dell’olfatto, sensazione di dolore e parestesie (formicolio e intorpidimento della pelle), possono verificarsi anche molti anni prima che venga fatta la diagnosi della malattia.
Un medico può diagnosticare la malattia di Parkinson partendo dalla storia clinica e da un esame neurologico. Attualmente non esiste un test che identifichi chiaramente la malattia e la tomografia computerizzata e la risonanza magnetica  del cervello di persone con malattia di Parkinson appaiono di solito normali. Tuttavia, tali tecniche sono utili per escludere altre malattie che possono essere cause secondarie di parkinsonismo, come malattia di Alzheimer, tumori vascolari, ictus cerebrale, patologie dei gangli della base, idrocefalo, parkinsonismo indotto da farmaco.
La medicina nucleare permette uno studio accurato della patologia dal punto di vista anatomico e funzionale. Essa sfrutta l'uso di traccianti radioattivi (ioflupane 32I il cui nome commerciale è DaTSCAN, iometopane detto commercialmente Dopascan) iniettati nell'organismo, i quali vanno a depositarsi nei distretti corporei oggetto di studio, evidenziandone il metabolismo, e quindi in maniera diretta o indiretta, caratteristiche come la vitalità o l'attività. Essendo la malattia di Parkinson una patologia a carico del sistema dopaminergico, i traccianti sono diretti verso il trasportatore della dopamina e verso il trasportatore vescicolare delle monoamine di tipo 2 e verso l'enzima DOPA decarbossilasi. 
La posizione in cui i traccianti vanno a depositarsi vengono rilevati tramite PET e SPECT.
Organizzazioni mediche hanno creato criteri per facilitare e standardizzare il processo diagnostico, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia. I più conosciuti provengono dalla britannica Parkinson's Disease Society Brain Bank e dalla statunitense National Institute of Neurological Disorders and Stroke.
I criteri del primo istituto citato richiedono la presenza di lentezza nei movimenti (bradicinesia) più rigidità, tremore a riposo o instabilità posturale. Nel secondo, tre o più delle seguenti caratteristiche sono necessarie durante l'insorgenza o l'evoluzione: esordio unilaterale, tremore a riposo, progressione nel tempo, asimmetria dei sintomi motori, risposta alla levodopa per almeno cinque anni, decorso clinico di almeno dieci anni e verificarsi di discinesie indotte dall'assunzione eccessiva di levodopa. La precisione di questi criteri diagnostici, valutati dopo autopsia (in cui si cerca la prova della malattia: la presenza di corpi di Lewy nel mesencefalo), è del 75-90%, tuttavia, le stesse linee guida consigliano sempre di valutare periodicamente la diagnosi, dato che la progressione della malattia può far cambiare la stessa opinione.
Un grande sforzo è stato dedicato a cercar di capire come e perché la perdita dello stimolo dopaminergico nigro-striatale possa dar luogo alle caratteristiche cliniche della malattia.
La substantia nigra, insieme allo Striato, a sua volta suddiviso in nucleo caudato, putamen e nucleus accumbens, al globus pallidus, al nucleo subtalamico compongono i Gangli della base, un gruppo di nuclei sottocorticali localizzati alla base di entrambi gli emisferi cerebrali, intensamente interconnessi con la corteccia cerebrale, il talamo e il tronco cerebrale.
I Gangli della base, fanno parte di quel circuito neuronale detto sistema extrapiramidale deputato al controllo del movimento, della postura e dell’equilibrio.
Tale circuito neuronale origina dai neuroni corticali glutaminergici, eccitatori che proiettano sui neuroni GABAergici presenti nello striato.
CORTECCIA --> Glu (+) --> STRIATO
Da qui il segnale può viaggiare attraverso due vie, la via diretta e la via indiretta.
La via diretta è costituita dai neuroni dello striato che usando il GABA proiettano direttamente alla substantia nigra e al globo pallido mediano; da queste stazioni di uscita, tramite il GABA le informazioni arrivano al talamo ventroanteriore e ventrolaterale che invia segnali eccitatori mediati dal Glutammato alla corteccia
STRIATO --> GABA (-) --> SUBSTANTIA NIGRA e GPM --> GABA (-) --> TALAMO VA/VL --> Glu (+) --> CORTECCIA
Pertanto l’effetto netto della stimolazione della via diretta è l’aumento del flusso eccitatorio del talamo alla corteccia, visto che il segnale che giunge alla substantia nigra è inibitorio.
La via indiretta è costituita dai neuroni dello striato che proiettano al globo pallido laterale mediante il GABA; questa struttura innerva a sua volta, usando il GABA, i nuclei sottotalamici che dirigono i loro segnali alla substantia nigra e al globo pallido mediano per mezzo del Glutammato
STRIATO --> GABA (-) --> GLOBO PALLIDO LATERALE --> GABA (-) --> NUCLEI SOTTOTALAMICI --> Glutammato (+) --> SUBSTANTIA NIGRA e GPM --> GABA (-) --> TALAMO VA/VL --> Glu (+)--> CORTECCIA
Pertanto l’effetto netto della stimolazione della via indiretta è una riduzione del flusso eccitatorio del talamo alla corteccia, visto che il segnale che giunge alla substantia nigra è eccitatorio.



La dopamina ha un diverso effetto su via diretta e indiretta.
Questa catecolamina viene sintetizzata nelle terminazioni dei neuroni dopaminergici a partire dalla tirosina (Tyr), la quale attraversa la BEE a seguito di un processo attivo. Il passaggio limitante la sua sintesi è la conversione della Tyr in L-DOPA catalizzata dalla tirosina idrossilasi; la L-DOPA viene convertita in DA dalla decarbossilasi degli amminoacidi aromatici, immagazzinata in vescicole grazie a un trasportatore attivo (inibito dalla reserpina) e rilasciata attraverso una esocitosi calcio mediata. Quando la dopamina si trova nello spazio intersinaptico, la sua azione viene conclusa per ricaptazione presinaptica (inibita dalla cocaina) o, in alternativa dalla degradazione operata dalle MAO e dalle COMT a dare acido 3,4 diidrossifenilacetico (DOPAC) e acido 3-metossi-4-idrossifenilacetico (HVA).


L’azione della dopamina si esplica attraverso due famiglie di recettori, tutti recettori metabotropici associati alle proteine G e possono essere pre- o post-sinaptici: i recettori della famiglia D1 sono solo post sinaptici e agendo sulla proteina Gs, inducono l’adenilatociclasi con un aumento della concentrazione di cAMP; i recettori della famiglia D2 sono sia pre- che post-sinaptici e, agendo sulla proteina Gi, diminuiscono la concentrazione di cAMP.
Entrambi i recettori sono abbondantemente espressi nello striato e vanno a modulare il D1 la via diretta e il D2 la via indiretta.
Ora, essendo D1 eccitatorio e D2 inibitorio, la dopamina rilasciata dai neuroni dopaminergici della parte compatta della substantia nigra aumenterà la stimolazione della via diretta e ridurrà la via indiretta. Ciò significa che fisiologicamente la dopamina della substantia nigra aumenta la stimolazione talamo-corteccia, per cui nella malattia di Parkinson si avrà un aumento del flusso inibitorio della via indiretta e quindi un ridotto flusso di segnali eccitatori dal talamo alla corteccia.
In altre parole, nella malattia di Parkinson si assiste ad una demodulazione dell’armonica ed equilibrata attivazione tra via diretta e indiretta del circuito motorio dei gangli della base.





Inoltre, dalla substatia nigra originano anche fibre dirette ad aree coinvolte nei processi emotivi ed intellettivi, il che spiega il motivo per cui nel paziente affetto da malattia di Parkinson oltre ai classici segni in cui è coinvolto il sistema motorio, vi sia un universo di manifestazioni  sintomatologiche, rappresentato da alterazioni psichiche e cognitive.

I FARMACI comunemente usati nel trattamento della malattia di Parkinson sono tutte molecole che tendono a stimolare l’azione della dopamina.
La LEVODOPA (Sinemet®, Duodopa®) è il farmaco più efficace nel trattamento di questa malattia. Quando somministrata per via orale, la Levodopa viene rapidamente assorbita dall’intestino grazie ad un sistema di trasporto attivo per gli amminoacidi aromatici; esiste una significativa competizione all’assorbimento tra il farmaco e gli amminoacidi assunti con la dieta per cui la sua somministrazione ai pasti ritarda l’assorbimento e riduce la concentrazione plasmatica, analogamente a quanto succede per l’attraversamento della BEE, anch’esso mediato da un sistema di trasporto per gli amminoacidi aromatici.

Di per sé inerte, nel cervello la Levodopa viene convertita in dopamina dalla decarbossilasi principalmente entro i terminali presinaptici dei neuroni dopaminergici dello striato e tale dopamina, responsabile dell’efficacia terapeutica, viene ricaptata o degradata dalle MAO e dalle COMT dopo il suo rilascio.
Nella pratica clinica, la Levodopa è quasi sempre somministrata in combinazione con un INIBITORE PERIFERICO DELLA DECARBOSSILASI degli AMMINOACIDI AROMATICI, come CARBIDOPA (Sinemet®: 100+25 mg;) e BENSERAZIDE (Madopar®: 100+25 mg). 

Infatti, quando la Levodopa viene somministrata sola subisce un’ampia decarbossilazione da parte degli enzimi localizzati sulla mucosa intestinale e in altri siti periferici, comportando, da un lato uno scarso raggiungimento di farmaco nel circolo cerebrale con una penetrazione nel SNC minore dell’1%, dall’altro, la produzione di effetti collaterali da parte della dopamina circolante, in primis la nausea. Inoltre, la dopamina in circolo può attivare i recettori dopaminergici vascolari e produrre ipotensione, mentre agendo sui recettori α e β adrenergici può indurre aritmie cardiache, specie in pazienti con disturbi pre-esistenti nella conduzione cardiaca.
La carbidopa e la benserazide, non attraversando la BEE, inibiscono la decarbossilazione periferica, aumentando così significativamente la quota di Levodopa disponibile a passare nel SNC e riducendo gli effetti collaterali periferici.

La terapia con Levodopa, può avere effetti positivi su tutti i sintomi della malattia e, soprattutto negli stadi precoci, il grado di miglioramento può essere addirittura completo; inoltre, il fatto che la sua durata d’azione sia superiore all’emivita della molecola nel plasma, ha suggerito che il sistema dopaminergico nigrostriatale nelle fasi iniziali della malattia sia ancora in grado di immagazzinare e rilasciare la dopamina.
Tuttavia, la principale limitazione all’uso a lungo termine della Levodopa è la perdita, col tempo, di questa capacità di controllare il deficit dopaminergico, determinando così fluttuazioni drammatiche dello stato motorio del paziente. Un problema comune è lo sviluppo di un fenomeno di riduzione dell’effetto, detto wearing off, in cui ciascuna dose di levodopa migliora la motilità per un tempo intorno a 1-2 ore ma i sintomi si ripresentano rapidamente al termine dell’intervallo di attività della dose somministrata. L’aumento della dose o della frequenza di somministrazione può migliorare la situazione, ma questa pratica è spesso limitata alla comparsa di discinesie e di movimenti involontari anormali. Questi movimenti possono essere fonte di disturbo e disabilitanti come gli stessi sintomi della malattia di Parkinson. Negli stadi più avanzati dalle malattia, si possono invece verificare fluttuazioni rapide da uno stadio senza sintomi a uno in cui si verificano discinesie disabilitanti, situazione chiamata fenomeno on/off.
In aggiunta alle fluttuazioni motorie e alla nausea, un effetto comune e preoccupante, specie nelle persone anziane, è la comparsa di allucinazioni, confusione, fluttuazioni del tono dell’umore, generalmente caratterizzate da depressione, apatia, irritabilità e ansia.
E’ bene tener presente, specie nei pazienti anziani sotto politerapia, che i farmaci antipsicotici convenzionali (fenotiazine) sono efficaci contro tali sintomi ma possono peggiorare i sintomi parkinsoniani probabilmente per azione sui recettori D2, ma l’uso recente di  agenti antipsicotici atipici come la clozapina ha mostrato di non peggiorare il parkinsonismo.
Una questione importante e irrisolta sull’uso della Levodopa in questa malattia è se essa sia in grado di alterare l’andamento del processo degenerativo o se abbia azione solo sulla sintomatologia. In particolar modo un aspetto preoccupa: se, come è stato suggerito, la produzione di radicali liberi da parte del metabolismo della dopamina, contribuisce alla morte dei neuroni nigrostriatali, l’aggiunta di Levodopa potrebbe accelerare tale processo degenerativo. Tuttavia, su questa ipotesi non sono state ancora formulate sufficienti prove.

Per potenziare l’azione della dopamina proveniente dai neuroni ancora sani o dalla decarbossilazione della Levodopa è razionale l’impiego di composti che agiscano come INIBITORI della DEGRADAZIONE della DOPAMINA, come farmaci ANTIMAO o ANTI COMT, per aumentare così la sua concentrazione plasmatica.



Mentre bisogna star attenti all’aumento dell’azione della Levodopa quando somministrata in associazione con inibitori aspecifici delle MAO o selettivi per le MAO-A in quanto, a causa della ridotta metabolizzazione, si possono verificare crisi ipertensive per aumento delle catecolamine potenzialmente fatali e iperpiressia (la sospensione di antiMAO aspecifici deve essere effettuata 14 giorni prima dell’inizio della terapia con Levodopa) risulta invece essere ben tollerata in pazienti con malattia di Parkinson lieve-moderata, la SELEGILINA (Egibren®), un inibitore irreversibile e selettivo (dosi ≤ 10 mg) dell’isoforma MAO-B predominante nello striato e responsabile del metabolismo della dopamina in tale sede. Essa viene usata nel trattamento sintomatico della malattia di Parkinson, anche se con modesti effetti, allo scopo di ritardare la degradazione della dopamina nello striato.
Inoltre, dato il recente interesse sul ruolo che in tale malattia possono avere i radicali liberi e lo stress ossidativo, è stato proposto, anche se ancora con poche evidenze, che essa, ritardando il metabolismo della dopamina possa dare neuroprotezione.
E’importante tenere presente che la selegillina può interagire con antidepressivi triciclici e inibitori del reuptake della serotonina potenziandone gli effetti e può indurre agitazione dopo somministrazione dell’analgesico meperidina, mentre i suoi metaboliti, amfetamina e metamfetamina, possono causare ansia e insonnia.
In alternativa alla selegilina si può impiegare la RASAGILINA (Azilect®) un inibitore delle monoamminossidasi A e B, ma con attività maggiore nei confronti delle MAO-B.
La frazione di Levodopa e dopamina che viene metabolizzata dalle COMT in 3-O-metildopa e 3 metossitiramina inattive, può venir abbassata anche usando INIBITORI delle COMT come TOLCAPONE (Tasmar®) e ENTACAPONE (Stalevo®: Levodopa+carbidopa+entacapone):

Tali molecole, inibendo l’azione delle COMT, portano ad un aumento dell’emivita plasmatica della Levodopa e della frazione di dose che raggiunge il SNC.
Infatti, quando è inibita l’attività della dopamina decarbossilasi periferica da parte della carbidopa, aumenta l’attività delle COMT e si viene a formare una considerevole concentrazione di 3-O-metildopa che va a competere con la Levodopa per il trasporto attivo all’interno del SNC; pertanto, l’inibizione delle COMT da parte di queste molecole causa una diminuzione della concentrazione plasmatica di 3-O-metildopa, con conseguente aumento della captazione centrale di Levodopa e maggiori concentrazioni cerebrali di dopamina.
Il Tolcapone ha una emivita relativamente lunga che richiede 2-3 somministrazioni al giorno e agisce inibendo sia le COMT centrali che quelle periferiche; l’Entacapone è più selettivo per le COMT periferiche e ha una durata d’azione più breve (circa 2h) che ne permette la somministrazione contemporanea alla combinazione Levodopa/Carbidopa. 

Molto usati nel trattamento iniziale della malattia di Parkinson sono gli AGONISTI dei RECETTORI DOPAMINERGICI, tra i quali sono stati selezionati 4 composti, due più vecchi e due più recenti e selettivi.
I primi comprendono BROMOCRIPTINA (Parlodel®) e PERGOLIDE (Nopar®), entrambi derivati dall’Ergot,  e con uno spettro di azione e effetti avversi simili: la bromocriptina è un potente agonista D2 e un antagonista parziale per D1, mentre la pergolide è un agonista per entrambe le forme recettoriali.
Gli agonisti più recenti sono ROPINIROLO (Requip®), PRAMIPEXOLO (Mirapexin®), selettivi verso i recettori D2.
Tutte e quattro le molecole sono ben assorbite per via orale, hanno proprietà terapeutiche simili: agiscono alleviando i sintomi clinici della malattia in maniera analoga alla Levodopa, tuttavia, non richiedendo per la loro attività una trasformazione enzimatica, essi non dipendono dalle capacità funzionali dei neuroni nigrostriatali e ciò può portare ad una maggiore efficacia rispetto alla Levodopa negli stati più avanzati della malattia. Inoltre, essi hanno un’azione potenzialmente più selettiva e una durata d’azione molto superiore alla Levodopa che li rende utili nella gestione delle fluttuazioni dose-dipendente dello stato motorio. Infine, se teniamo presente l’ipotesi che la formazione dei radicali liberi  derivanti dal metabolismo della dopamina contribuisca alla morte neuronale, solo gli agonisti dei recettori dopaminergici potrebbero avere la capacità di modificare il decorso della malattia o almeno di non incrementare il danno.
Tutti questi effetti hanno portato all’impiego di questi composti come alternativa piuttosto che in aggiunta alla terapia con Levodopa.
La principale distinzione tra la vecchia e la nuova generazione di questi farmaci risiede nella tollerabilità: la terapia con bromocriptina e pergolide può causare profonda ipotensione che richiede di iniziare con la somministrazione di un dosaggio basso; al contrario, il trattamento con Ropinirolo e Pramipexolo può esser iniziato più rapidamente. Sebbene la nuova generazione dia minor effetti collaterali, le due molecole possono dare improvvisi attacchi di sonno durante le attività diurne, un effetto poco frequente ma che deve esser considerato.

Molto prima della scoperta della Levodopa, sono stati largamente usati nel trattamento del Parkinsonismo gli ANTAGONISTI dei RECETTORI MUSCARINICI: nello striato, infatti, poiché le sinapsi dopaminergiche provenienti dalla substantia nigra inibiscono le terminazioni colinergiche, nella malattia di Parkinson queste risultano essere molto più attive. Gli antagonisti attualmente in uso, come TRIESILFENIDILE (Artane®), BIPERIDENE (Akineton®), ORFENANDINA (Disipal®) e BENZTROPINA MESILATO (Cogentin®, non disponibile in Italia) sono utili negli stadi iniziali della malattia o in aggiunta alla terapia dopaminergica, soprattutto per il controllo della scialorrea, del tremore e della rigidità, ma hanno scarsi effetti sulla bradicinesia.
Gli effetti collaterali di questi farmaci derivano dall’azione anticolinergica centrale e periferica: sedazione e confusione mentale, stipsi, ritenzione urinaria, alterazioni della vita. Tali sostanze devono esser usate con cautela in caso di glaucoma.

Nel trattamento iniziale della malattia di Parkinson lieve-moderata o in associazione alla Levodopa in quei pazienti con fluttuazioni legate al dosaggio si usa anche l’AMANTADINA (Mantadan®) e il correlato MEMANTINA.
L’Amantadina, farmaco antivirale usato nella profilassi e nel trattamento dell’influenza A ha un’azione antiparkinsoniana con un meccanismo ancora non chiaro: si pensa che la molecola possa alterare il rilascio o il reuptake della dopamina, che possa avere proprietà anticolinergiche o una certa attività sui recettori NMDA del Glu.

Oltre alla somministrazione dei farmaci appena descritti, è possibile seguire una terapia parallela per il controllo dei sintomi secondari e per migliorare la qualità della vita del paziente come farmaci per la cura della depressione, dell’ansia e della stipsi. Inoltre, l’esperienza fornisce alcune prove che i problemi di linguaggio e di mobilità sono in grado di migliorare grazie alla riabilitazione: l’esercizio fisico regolare, con o senza fisioterapia, può essere utile per mantenere e migliorare la mobilità, la flessibilità, la forza, l'andatura e la qualità della vita. Tuttavia, quando un programma di esercizio viene svolto sotto la supervisione di un fisioterapista, si possono riscontrare maggiori miglioramenti. Per migliorare la capacità di movimento nei pazienti che presentano rigidità, sono stati proposti esercizi e tecniche di rilassamento, come dolci dondolii, che aiutano a diminuire l'eccessiva tensione muscolare. Inoltre, a causa della postura flessa in avanti e delle disfunzioni respiratorie presenti nella fase avanzata della malattia, gli esercizi di respirazione profonda diaframmatica sono utili per migliorare la mobilità della parete toracica e della funzionalità vitale. Per quanto riguarda la deambulazione, i fisioterapisti possono proporre una serie di strategie per migliorare la mobilità e la sicurezza funzionale le quali puntano a migliorare la velocità di andatura, la lunghezza del passo, il movimento del tronco e del braccio. Gli esercizi studiati per rafforzare la muscolatura si sono dimostrati utili per migliorare la funzionalità motoria nei pazienti con debolezza muscolare e debolezza relativa all'inattività. Tuttavia, i rapporti mostrano una significativa interazione tra la forza e il momento in cui sono stati assunti i farmaci. Pertanto, si raccomanda che i pazienti eseguano gli esercizi da 45 minuti a un'ora dopo aver assunto la terapia, ovvero quando il paziente è al meglio.
Prima di concludere, un piccolo cenno va fatto anche sulla terapia chirurgica e sulla terapia genica.
La terapia chirurgica della malattia di Parkinson, abbandonata con la scoperta della Levodopa, è stata nuovamente utilizzata per quei malati per i quali la terapia farmacologica non è più sufficiente, grazie ai grandi miglioramenti nelle tecniche che si sono avuti negli ultimi decenni. Attualmente la tecnica più utilizzata è la chirurgia stereotassica che permette di trattare punti in profondità nel parenchima cerebrale con precisione millimetrica, grazie all'ausilio di dispositivi radiologici. La stimolazione profonda cerebrale (Deep Brain Stimulation, DBS) è il trattamento chirurgico più usato e comporta l’impianto di un dispositivo medico, chiamato pacemaker cerebrale che invia impulsi elettrici a specifiche zone del cervello. Tale intervento permette una buona remissione clinica e una significativa riduzione della dipendenza da Levodopa: uno studio pubblicato da Journal of the American Medical Association ed effettuato su un campione di 225 malati, ha evidenziato, nel 71% dei casi, decisivi miglioramenti nei movimenti e nella diminuzione dei tremori in seguito alla DBS, rispetto al 30% che prendeva solo farmaci.
La terapia genica comporta l’uso di virus non infettivi per portare un gene in una parte del cervello, il nucleo subtalamico, che regola il circuito motorio. Il gene serve per produrre il neurotrasmettitore GABA che è deficitario nei pazienti affetti da malattia di Parkinson, per cui la sua iniezione ha lo scopo di stimolare la produzione di questo neurotrasmettitore per normalizzare la funzione del circuito motorio.
Nel 2010 vi erano quattro studi clinici che avevano utilizzato la terapia genica nella malattia di Parkinson. Non vi sono stati importanti effetti negativi in questi studi, anche se l'utilità clinica della terapia genica è ancora da determinare. Un ulteriore risultato positivo è stato riportato nel 2011. Altri promettenti recenti ricerche indicano la possibilità di usare tecniche di ingegneria genetica per "infettare" opportunamente i mitocondri di cellule dopaminergiche di topi con una proteina (beta 2.7) in grado di proteggere gli stessi dall'insulto e in definitiva rendendo più resistenti le stesse cellule al danno apoptotico.

AGGIORNAMENTO

In data 27 febbraio 2015, l'EMA ha approvato la SAFINAMIDE come terapia aggiuntiva nel trattamento della malattia di Parkinson. Tale molecola, sviluppata da Zambon e Newron e messa in commercio con il nome di Xadago, è un alfa-amminoacido derivato che secondo gli studi fatti ha un duplice meccanismo di azione basato sull'incremento della funzione dopaminergica (attraverso un'inibizione potente e reversibile della MAO-B e del reuptake della dopamina) e sulla riduzione dell'attività glutammatergica (attraverso una inibizione del rilascio del glutammato). Il parere positivo sull'impiego della safinamide si riferisce all'associazione con L-DOPA in pazienti con malattia in fase moderata o avanzata che presentano fluttuazioni motorie, cioè quelle complicanze associate alla terapia cronica con L-DOPA che si manifestano dopo 5-10 anni di trattamento.


BIBLIOGRAFIA
  • Goodman & Gilman Le basi farmacologiche della terapia Mc Graw Hill ed
  • Rang Y Dale Farmacologia Elsevier ed
  • Katzung Farmacologia Generale e Clinica Piccin ed.
  • Foye, Lemke, Williams Principi di chimica farmaceutica Padova ed.
  • Appunti di lezione della Professoressa Tita
  • Appunti di lezione della Professoressa Ziche
  • Struttura delle molecole www.wikipedia.it
  • http://parkinson.musiogianfranco.it/Malattia%20di%20Parkinson.pdf