Il
parkinsonismo è una sindrome clinica che comprende 4 caratteristiche
principali: tremore a riposo che scompare durante i movimenti volontari,
rigidità muscolare, alterazione del movimento volontario con globale riduzione
della motilità (acinesia), lentezza (bradicinesia) e riduzione
dell’ampiezza (ipocinesia);dei movimenti; successivamente interviene la
compromissione del bilanciamento posturale e dell’equilibrio che determinano
disturbi della deambulazione (passo strascicato) e cadute.
La
causa più comune di parkinsonismo è la MALATTIA di PARKINSON idiopatica,
descritta per la prima volta da James Parkinson nel 1817 come “paralisi
agitante”, ma possono portare a sintomi analoghi anche alcune patologie
neurodegenerative rare, l’ictus e l’intossicazione da farmaci bloccanti dei recettori
dopaminergici come antipsicotici (aloperidolo, clopromazina) e antiemetici
(metoclopramide). Inoltre, considerando che tra i fattori intrinseci legati a
questa malattia neurodegenerativa c’è lo stress ossidativo, farmaci che possono
esacerbare tale fattore, come ad esempio l’ antiepilettico acido valproico che
presumibilmente interferisce con il funzionamento del complesso respiratorio I,
vanno sospesi in presenza di segni di parkinsonismo.
La
malattia di Parkinson idiopatica è la seconda malattia neurodegenerativa più
diffusa dopo la malattia di Alzheimer, andando a colpire l’1% della popolazione
sopra i 60 anni e il 4% della popolazione sopra gli 80 anni. Alcuni studi hanno
proposto che sia più comune negli uomini rispetto alle donne, ma altri non
hanno rilevato particolari differenze tra i due sessi. La malattia, inoltre,
sembra essere meno diffusa nelle razze con maggiore melanina probabilmente in
quanto questo pigmento è in grado di legare l’MPTP, una potente tossina
implicata nella patogenesi.
La
perdita progressiva dei neuroni dopaminergici è una caratteristica normale
dell’invecchiamento ma nella maggior parte della popolazione tale perdita non
raggiunge il 70-80% che è causa dell’insorgenza dei sintomi della malattia
parkinsoniana. In genere la malattia è caratterizzata da due fasi: una fase
perisintomatica, caratterizzata dalla perdita dei neuroni dopaminergici della
substantia nigra, e una fase sintomatica.
Se non curata la malattia di Parkinson progredisce in
5-10 anni fino allo stadio di acinesia rigida in cui il paziente è incapace di
prendersi cura di sé e la morte avviene frequentemente per complicanze legate
all’ immobilità.
In
genere il sintomo più evidente e precoce è il tremore, anche se va considerato
che il 30% degli individui affetti da questa malattia all’ esordio non lo
mostra. Il tremore è tipicamente a riposo, con bassa frequenza, scompare
durante i movimenti volontari e in genere peggiora nelle situazioni di stress
emozionale, mentre è assente durante il sonno. Esso è lieve ed è descritto come
l’atto di “contare le monete” o pill-rolling, un termine che deriva dalla
somiglianza tra il movimento nei pazienti e la tecnica usata in farmaceutica
per preparare manualmente le pillole.
Tale tremore coinvolge maggiormente la porzione
più distale dell’arto e all’insorgenza, cioè nel primo stadio secondo la
classificazione in 5 stadi fatta da Hoehn e Yahr, si presenta monolaterale in
un braccio o in una gamba, per poi
divenire nello stadio II successivo bilaterale. La lentezza dei
movimenti è il sintomo più invalidante dei primi stadi della malattia, in
quanto è associata ad una difficoltà in tutto il processo del movimento, dalla
pianificazione alla iniziazione e, infine, all’ esecuzione. Il movimento
sequenziale e simultaneo viene ostacolato il che crea diversi problemi
nell’esecuzione di quelle attività quotidiane che richiedono un controllo fine
dei movimenti, come la scrittura, il cucito o il vestirsi; in particolare,
durante la scrittura si manifesta tratto tremolante, difficoltà nei tratti
rotondeggianti e micrografia.
La
rigidità e la resistenza al movimento degli arti è invece causata da una
contrazione eccessiva e continua dei muscoli e si manifesta nelle fasi iniziali
in maniera asimmetrica andando ad influenzare i muscoli del collo e delle
spalle, rispetto ai muscoli del viso e degli arti. La rigidità può essere
associata a dolore articolare e tale dolore è una frequente manifestazione
iniziale della malattia. La postura di un individuo con malattia di Parkinson
tra lo stadio 1 e 3 della malattia è
tipica: esso assume una postura fissa, in cui il tronco, le anche, le ginocchia
e le caviglie sono flessi lievemente.
Tipica
invece degli ultimi stadi è l’instabilità posturale che determina disturbi
dell’equilibrio e frequenti cadute: la deambulazione avviene tipicamente
mediante piccoli passi, strisciati, con avvio molto problematico e spesso si
verifica il fenomeno della festinazione, cioè la progressiva accelerazione
della camminata sino a cadere. Con il progredire della malattia la
deambulazione risulta impossibile in quanto il paziente non può stare in
posizione eretta, si possono avere disturbi della deglutizione con conseguente
maggiore lentezza a consumare il pasto e la sensazione che cibo e saliva
(scialorrea) si fermino in gola. Anche la mimica facciale progressivamente
diventa scarsa e l’espressione impassibile (ipomimia).
STADIO
|
SCALA HOEHN e YAHR
|
SCALA HOEHN e YAHR MODIFICATA
|
1
|
Coinvolgimento unilaterale, solitamente con solo una
minima o nessuna disabilità funzionale
|
Solo coinvolgimento unilaterale
|
1.5
|
Coinvolgimento unilaterale e assiale
|
|
2
|
Coinvolgimento bilaterale o mediano senza
compromissione dell'equilibrio
|
Coinvolgimento bilaterale senza compromissione dell'equilibrio
|
2.5
|
Lieve coinvolgimento bilaterale senza recupero sul
test a trazione
|
|
3
|
Coinvolgimento bilaterale da medio a moderato; alcune
difficoltà posturali; fisicamente indipendente
|
|
4
|
Malattia gravemente debilitante, ancora in grado di
camminare o stare in piedi senza assistenza
|
Grave disabilità; ancora in grado di camminare o
stare in piedi senza assistenza
|
5
|
Costretto a letto o sulla sedi a rotelle
|
La SCALA di HOEHN e YAHR è usata comunemente per descrivere i sintomi della progressione della malattia di Parkinson: originariamente pubblicata nel 1967 sulla rivista Neurology è stata successivamente modificata con l’aggiunta degli stadi 1.5 e 2.5 per descrivere il decorso intermedio della malattia
Oltre ai sintomi motori, la malattia di Parkinson determina anche problemi non motori sopratutto a livello neuropsichiatrico.
Tra i sintomi
neuropsichiatrici abbiamo disturbi del
linguaggio e deficit cognitivo di cui il più comune è la disfunzione esecutiva
che può comprendere difficoltà nella pianificazione, nella flessibilità
cognitiva, nel pensiero astratto, nell’ avvio di azioni appropriate e nell’ inibizione
delle operazioni inappropriate. Una persona
con malattia di Parkinson ha da 2 a 6 volte il rischio di soffrire di demenza
rispetto alla popolazione generale. Anche le alterazioni del comportamento e
dell’umore sono più comuni nella malattia di Parkinson rispetto al resto della
popolazione: i problemi più frequenti sono depressione, apatia, ansia,
difficoltà nel controllo degli impulsi che può portare all’ abuso di farmaci,
all’ alimentazione compulsiva, all’ ipersessualità, al gioco d’azzardo.
Infine,
oltre ai sintomi cognitivi e motori, la malattia di Parkinson può compromettere
altre funzioni dell’organismo: problemi di sonno sono una caratteristica della
malattia; le alterazione del sistema nervoso autonomo possono portare a
ipotensione ortostatica, pelle grassa (seborrea frontale), eccessiva
sudorazione, incontinenza urinaria e alterata funzione sessuale; la
costipazione e i disturbi della motilità gastrica possono essere importanti
tanto da creare disagio e mettere in pericolo la vita del paziente.
Tutti
questi sintomi, a cui aggiungiamo anche
movimenti saccadici (rapidi movimenti involontari degli occhi nella stessa
direzione), secchezza oculare, alterazione dell’olfatto, sensazione di dolore e
parestesie (formicolio e intorpidimento della pelle), possono verificarsi anche
molti anni prima che venga fatta la diagnosi della malattia.
Un
medico può diagnosticare la malattia di Parkinson partendo dalla storia clinica
e da un esame neurologico. Attualmente non esiste un test che identifichi
chiaramente la malattia e la tomografia computerizzata e la risonanza
magnetica del cervello di persone con
malattia di Parkinson appaiono di solito normali. Tuttavia, tali tecniche sono
utili per escludere altre malattie che possono essere cause secondarie di
parkinsonismo, come malattia di Alzheimer, tumori vascolari, ictus cerebrale,
patologie dei gangli della base, idrocefalo, parkinsonismo indotto da farmaco.
La
medicina nucleare permette uno studio accurato della patologia dal punto di
vista anatomico e funzionale. Essa sfrutta l'uso di traccianti radioattivi
(ioflupane 32I il cui nome commerciale è DaTSCAN, iometopane detto
commercialmente Dopascan) iniettati nell'organismo, i quali vanno a depositarsi
nei distretti corporei oggetto di studio, evidenziandone il metabolismo, e quindi
in maniera diretta o indiretta, caratteristiche come la vitalità o l'attività.
Essendo la malattia di Parkinson una patologia a carico del sistema
dopaminergico, i traccianti sono diretti verso il trasportatore della dopamina
e verso il trasportatore
vescicolare delle monoamine di tipo 2 e verso l'enzima DOPA decarbossilasi.
La posizione in cui i traccianti vanno a depositarsi vengono rilevati tramite PET e SPECT.
La posizione in cui i traccianti vanno a depositarsi vengono rilevati tramite PET e SPECT.
Organizzazioni
mediche hanno creato criteri per facilitare e standardizzare il processo
diagnostico, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia. I più conosciuti
provengono dalla britannica Parkinson's Disease
Society Brain Bank e dalla statunitense National
Institute of Neurological Disorders and Stroke.
I criteri del primo istituto citato richiedono la
presenza di lentezza nei movimenti (bradicinesia) più rigidità, tremore a
riposo o instabilità posturale. Nel secondo, tre o più delle seguenti
caratteristiche sono necessarie durante l'insorgenza o l'evoluzione: esordio
unilaterale, tremore a riposo, progressione nel tempo, asimmetria dei sintomi motori,
risposta alla levodopa per almeno cinque anni, decorso clinico di almeno dieci
anni e verificarsi di discinesie indotte dall'assunzione eccessiva di levodopa.
La precisione di questi criteri diagnostici, valutati dopo autopsia (in cui si
cerca la prova della malattia: la presenza di corpi di Lewy nel mesencefalo), è
del 75-90%, tuttavia, le stesse linee guida consigliano sempre di valutare
periodicamente la diagnosi, dato che la progressione della malattia può far
cambiare la stessa opinione.
Un
grande sforzo è stato dedicato a cercar di capire come e perché la perdita
dello stimolo dopaminergico nigro-striatale possa dar luogo alle
caratteristiche cliniche della malattia.
La
substantia nigra, insieme allo Striato, a sua volta suddiviso in nucleo
caudato, putamen e nucleus accumbens, al globus pallidus, al nucleo subtalamico
compongono i Gangli della base, un gruppo di nuclei sottocorticali localizzati
alla base di entrambi gli emisferi cerebrali, intensamente interconnessi con la
corteccia cerebrale, il talamo e il tronco cerebrale.
I
Gangli della base, fanno parte di quel circuito neuronale detto sistema
extrapiramidale deputato al controllo del movimento, della postura e
dell’equilibrio.
Tale
circuito neuronale origina dai neuroni corticali glutaminergici, eccitatori che
proiettano sui neuroni GABAergici presenti nello striato.
CORTECCIA --> Glu (+) --> STRIATO
Da
qui il segnale può viaggiare attraverso due vie, la via diretta e la via
indiretta.
La
via diretta è costituita dai neuroni
dello striato che usando il GABA proiettano direttamente alla substantia nigra
e al globo pallido mediano; da queste stazioni di uscita, tramite il GABA le
informazioni arrivano al talamo ventroanteriore e ventrolaterale che invia
segnali eccitatori mediati dal Glutammato alla corteccia
STRIATO --> GABA (-) --> SUBSTANTIA NIGRA e GPM --> GABA (-) -->
TALAMO VA/VL --> Glu (+) --> CORTECCIA
Pertanto
l’effetto netto della stimolazione della via diretta è l’aumento del flusso
eccitatorio del talamo alla corteccia, visto che il segnale che giunge alla
substantia nigra è inibitorio.
La
via indiretta è costituita dai
neuroni dello striato che proiettano al globo pallido laterale mediante il
GABA; questa struttura innerva a sua volta, usando il GABA, i nuclei
sottotalamici che dirigono i loro segnali alla substantia nigra e al globo
pallido mediano per mezzo del Glutammato
STRIATO
--> GABA (-) --> GLOBO PALLIDO LATERALE --> GABA (-) --> NUCLEI SOTTOTALAMICI --> Glutammato (+) --> SUBSTANTIA NIGRA e GPM --> GABA (-) --> TALAMO VA/VL -->
Glu (+)--> CORTECCIA
Pertanto
l’effetto netto della stimolazione della via indiretta è una riduzione del
flusso eccitatorio del talamo alla corteccia, visto che il segnale che
giunge alla substantia nigra è eccitatorio.
La dopamina ha un diverso effetto su via diretta e indiretta.
La dopamina ha un diverso effetto su via diretta e indiretta.
Questa
catecolamina viene sintetizzata nelle terminazioni dei neuroni dopaminergici a
partire dalla tirosina (Tyr), la quale attraversa la BEE a seguito di un
processo attivo. Il passaggio limitante la sua sintesi è la conversione della
Tyr in L-DOPA catalizzata dalla tirosina idrossilasi; la L-DOPA viene
convertita in DA dalla decarbossilasi degli amminoacidi aromatici, immagazzinata
in vescicole grazie a un trasportatore attivo (inibito dalla reserpina) e
rilasciata attraverso una esocitosi calcio mediata. Quando la dopamina si trova
nello spazio intersinaptico, la sua azione viene conclusa per ricaptazione
presinaptica (inibita dalla cocaina) o, in alternativa dalla degradazione
operata dalle MAO e dalle COMT a dare acido 3,4 diidrossifenilacetico (DOPAC) e
acido 3-metossi-4-idrossifenilacetico (HVA).
L’azione
della dopamina si esplica attraverso due famiglie di recettori, tutti recettori
metabotropici associati alle proteine G e possono essere pre- o post-sinaptici:
i recettori della famiglia D1 sono solo post sinaptici e agendo
sulla proteina Gs, inducono l’adenilatociclasi con un aumento della
concentrazione di cAMP; i recettori della famiglia D2 sono sia pre-
che post-sinaptici e, agendo sulla proteina Gi, diminuiscono la concentrazione
di cAMP.
Entrambi i recettori sono abbondantemente espressi
nello striato e vanno a modulare il D1 la via diretta e il D2
la via indiretta.
Ora,
essendo D1 eccitatorio e D2 inibitorio, la dopamina
rilasciata dai neuroni dopaminergici della parte compatta della substantia
nigra aumenterà la stimolazione della via diretta e ridurrà la via indiretta.
Ciò significa che fisiologicamente la dopamina della substantia nigra aumenta
la stimolazione talamo-corteccia, per cui nella malattia di Parkinson si avrà un
aumento del flusso inibitorio della via indiretta e quindi un ridotto flusso di
segnali eccitatori dal talamo alla corteccia.
In
altre parole, nella malattia di Parkinson si assiste ad una demodulazione
dell’armonica ed equilibrata attivazione tra via diretta e indiretta del
circuito motorio dei gangli della base.
Inoltre,
dalla substatia nigra originano anche fibre dirette ad aree coinvolte nei
processi emotivi ed intellettivi, il che spiega il motivo per cui nel paziente
affetto da malattia di Parkinson oltre ai classici segni in cui è coinvolto il
sistema motorio, vi sia un universo di manifestazioni sintomatologiche, rappresentato da
alterazioni psichiche e cognitive.
I
FARMACI comunemente usati nel trattamento della malattia di Parkinson sono
tutte molecole che tendono a stimolare l’azione della dopamina.
Di
per sé inerte, nel cervello la Levodopa viene convertita in dopamina dalla
decarbossilasi principalmente entro i terminali presinaptici dei neuroni
dopaminergici dello striato e tale dopamina, responsabile dell’efficacia
terapeutica, viene ricaptata o degradata dalle MAO e dalle COMT dopo il suo rilascio.
Nella
pratica clinica, la Levodopa è quasi sempre somministrata in combinazione con
un INIBITORE PERIFERICO DELLA
DECARBOSSILASI degli AMMINOACIDI AROMATICI, come CARBIDOPA (Sinemet®:
100+25 mg;) e BENSERAZIDE
(Madopar®:
100+25 mg).
Infatti,
quando la Levodopa viene somministrata sola subisce un’ampia decarbossilazione
da parte degli enzimi localizzati sulla mucosa intestinale e in altri siti
periferici, comportando, da un lato uno scarso raggiungimento di farmaco nel circolo
cerebrale con una penetrazione nel SNC minore dell’1%, dall’altro, la
produzione di effetti collaterali da parte della dopamina circolante, in primis
la nausea. Inoltre, la dopamina in circolo può attivare i recettori
dopaminergici vascolari e produrre ipotensione, mentre agendo sui recettori α e
β adrenergici può indurre aritmie cardiache, specie in pazienti con disturbi
pre-esistenti nella conduzione cardiaca.
La
carbidopa e la benserazide, non attraversando la BEE, inibiscono la
decarbossilazione periferica, aumentando così significativamente la quota di Levodopa
disponibile a passare nel SNC e riducendo gli effetti collaterali periferici.
La terapia
con Levodopa, può avere effetti positivi su tutti i sintomi della malattia e,
soprattutto negli stadi precoci, il grado di miglioramento può essere
addirittura completo; inoltre, il fatto che la sua durata d’azione sia
superiore all’emivita della molecola nel plasma, ha suggerito che il sistema
dopaminergico nigrostriatale nelle fasi iniziali della malattia sia ancora in
grado di immagazzinare e rilasciare la dopamina.
Tuttavia,
la principale limitazione all’uso a lungo termine della Levodopa è la perdita,
col tempo, di questa capacità di controllare il deficit dopaminergico, determinando
così fluttuazioni drammatiche dello stato motorio del paziente. Un problema
comune è lo sviluppo di un fenomeno di riduzione dell’effetto, detto wearing
off, in cui ciascuna dose di levodopa migliora la motilità per un tempo intorno
a 1-2 ore ma i sintomi si ripresentano rapidamente al termine dell’intervallo
di attività della dose somministrata. L’aumento della dose o della frequenza di
somministrazione può migliorare la situazione, ma questa pratica è spesso
limitata alla comparsa di discinesie e di movimenti involontari anormali.
Questi movimenti possono essere fonte di disturbo e disabilitanti come gli
stessi sintomi della malattia di Parkinson. Negli stadi più avanzati dalle
malattia, si possono invece verificare fluttuazioni rapide da uno stadio senza
sintomi a uno in cui si verificano discinesie disabilitanti, situazione
chiamata fenomeno on/off.
In
aggiunta alle fluttuazioni motorie e alla nausea, un effetto comune e
preoccupante, specie nelle persone anziane, è la comparsa di allucinazioni,
confusione, fluttuazioni del tono dell’umore, generalmente caratterizzate da
depressione, apatia, irritabilità e ansia.
E’ bene
tener presente, specie nei pazienti anziani sotto politerapia, che i farmaci
antipsicotici convenzionali (fenotiazine) sono efficaci contro tali sintomi ma
possono peggiorare i sintomi parkinsoniani probabilmente per azione sui
recettori D2, ma l’uso recente di
agenti antipsicotici atipici come la clozapina ha mostrato di non
peggiorare il parkinsonismo.
Una
questione importante e irrisolta sull’uso della Levodopa in questa malattia è
se essa sia in grado di alterare l’andamento del processo degenerativo o se
abbia azione solo sulla sintomatologia. In particolar modo un aspetto
preoccupa: se, come è stato suggerito, la produzione di radicali liberi da
parte del metabolismo della dopamina, contribuisce alla morte dei neuroni
nigrostriatali, l’aggiunta di Levodopa potrebbe accelerare tale processo degenerativo.
Tuttavia, su questa ipotesi non sono state ancora formulate sufficienti prove.
Per
potenziare l’azione della dopamina proveniente dai neuroni ancora sani o dalla
decarbossilazione della Levodopa è razionale l’impiego di composti che agiscano
come INIBITORI della DEGRADAZIONE della
DOPAMINA, come farmaci ANTIMAO o
ANTI COMT, per aumentare così la sua concentrazione plasmatica.
Inoltre,
dato il recente interesse sul ruolo che in tale malattia possono avere i
radicali liberi e lo stress ossidativo, è stato proposto, anche se ancora con
poche evidenze, che essa, ritardando il metabolismo della dopamina possa dare
neuroprotezione.
E’importante
tenere presente che la selegillina può interagire con antidepressivi triciclici
e inibitori del reuptake della serotonina potenziandone gli effetti e può
indurre agitazione dopo somministrazione dell’analgesico meperidina, mentre i
suoi metaboliti, amfetamina e metamfetamina, possono causare ansia e insonnia.
In
alternativa alla selegilina si può impiegare la RASAGILINA
(Azilect®)
un inibitore delle monoamminossidasi A e B, ma con attività maggiore nei
confronti delle MAO-B.
La
frazione di Levodopa e dopamina che viene metabolizzata dalle COMT in
3-O-metildopa e 3 metossitiramina inattive, può venir abbassata anche usando INIBITORI delle COMT come TOLCAPONE (Tasmar®) e
ENTACAPONE
(Stalevo®:
Levodopa+carbidopa+entacapone):
Tali
molecole, inibendo l’azione delle COMT, portano ad un aumento dell’emivita
plasmatica della Levodopa e della frazione di dose che raggiunge il SNC.
Infatti,
quando è inibita l’attività della dopamina decarbossilasi periferica da parte
della carbidopa, aumenta l’attività delle COMT e si viene a formare una
considerevole concentrazione di 3-O-metildopa che va a competere con la
Levodopa per il trasporto attivo all’interno del SNC; pertanto, l’inibizione
delle COMT da parte di queste molecole causa una diminuzione della
concentrazione plasmatica di 3-O-metildopa, con conseguente aumento della
captazione centrale di Levodopa e maggiori concentrazioni cerebrali di
dopamina.
Il
Tolcapone ha una emivita relativamente lunga che richiede 2-3 somministrazioni
al giorno e agisce inibendo sia le COMT centrali che quelle periferiche;
l’Entacapone è più selettivo per le COMT periferiche e ha una durata d’azione
più breve (circa 2h) che ne permette la somministrazione contemporanea alla
combinazione Levodopa/Carbidopa.
Molto
usati nel trattamento iniziale della malattia di Parkinson sono gli AGONISTI dei RECETTORI DOPAMINERGICI,
tra i quali sono stati selezionati 4 composti, due più vecchi e due più recenti
e selettivi.
I
primi comprendono BROMOCRIPTINA (Parlodel®) e PERGOLIDE (Nopar®),
entrambi derivati dall’Ergot, e con uno
spettro di azione e effetti avversi simili: la bromocriptina è un potente
agonista D2 e un antagonista parziale per D1, mentre la pergolide è un agonista
per entrambe le forme recettoriali.
Gli
agonisti più recenti sono ROPINIROLO (Requip®), PRAMIPEXOLO (Mirapexin®),
selettivi verso i recettori D2.
Tutte
e quattro le molecole sono ben assorbite per via orale, hanno proprietà
terapeutiche simili: agiscono alleviando i sintomi clinici della malattia in
maniera analoga alla Levodopa, tuttavia, non richiedendo per la loro attività
una trasformazione enzimatica, essi non dipendono dalle capacità funzionali dei
neuroni nigrostriatali e ciò può portare ad una maggiore efficacia rispetto
alla Levodopa negli stati più avanzati della malattia. Inoltre, essi hanno
un’azione potenzialmente più selettiva e una durata d’azione molto superiore
alla Levodopa che li rende utili nella gestione delle fluttuazioni dose-dipendente
dello stato motorio. Infine, se teniamo presente l’ipotesi che la formazione
dei radicali liberi derivanti dal
metabolismo della dopamina contribuisca alla morte neuronale, solo gli agonisti
dei recettori dopaminergici potrebbero avere la capacità di modificare il
decorso della malattia o almeno di non incrementare il danno.
Tutti
questi effetti hanno portato all’impiego di questi composti come alternativa
piuttosto che in aggiunta alla terapia con Levodopa.
La
principale distinzione tra la vecchia e la nuova generazione di questi farmaci
risiede nella tollerabilità: la terapia con bromocriptina e pergolide può
causare profonda ipotensione che richiede di iniziare con la somministrazione
di un dosaggio basso; al contrario, il trattamento con Ropinirolo e Pramipexolo
può esser iniziato più rapidamente. Sebbene la nuova generazione dia minor
effetti collaterali, le due molecole possono dare improvvisi attacchi di sonno
durante le attività diurne, un effetto poco frequente ma che deve esser
considerato.
Molto
prima della scoperta della Levodopa, sono stati largamente usati nel
trattamento del Parkinsonismo gli ANTAGONISTI
dei RECETTORI MUSCARINICI: nello striato, infatti, poiché le sinapsi
dopaminergiche provenienti dalla substantia
nigra inibiscono le terminazioni colinergiche, nella malattia di Parkinson queste
risultano essere molto più attive. Gli antagonisti attualmente in uso, come TRIESILFENIDILE
(Artane®),
BIPERIDENE
(Akineton®),
ORFENANDINA
(Disipal®)
e BENZTROPINA
MESILATO (Cogentin®, non disponibile in Italia) sono
utili negli stadi iniziali della malattia o in aggiunta alla terapia
dopaminergica, soprattutto per il controllo della scialorrea, del tremore e
della rigidità, ma hanno scarsi effetti sulla bradicinesia.
Gli
effetti collaterali di questi farmaci derivano dall’azione anticolinergica
centrale e periferica: sedazione e confusione mentale, stipsi, ritenzione
urinaria, alterazioni della vita. Tali sostanze devono esser usate con cautela
in caso di glaucoma.
L’Amantadina,
farmaco antivirale usato nella profilassi e nel trattamento dell’influenza A ha
un’azione antiparkinsoniana con un meccanismo ancora non chiaro: si pensa che
la molecola possa alterare il rilascio o il reuptake della dopamina, che possa
avere proprietà anticolinergiche o una certa attività sui recettori NMDA del
Glu.
Oltre alla somministrazione dei
farmaci appena descritti, è possibile seguire una terapia parallela per il
controllo dei sintomi secondari e per migliorare la qualità della vita del
paziente come farmaci per la cura della depressione, dell’ansia e della stipsi.
Inoltre, l’esperienza fornisce alcune prove che i problemi di linguaggio e di
mobilità sono in grado di migliorare grazie alla riabilitazione: l’esercizio
fisico regolare, con o senza fisioterapia, può essere utile per mantenere e
migliorare la mobilità, la flessibilità, la forza, l'andatura e la qualità
della vita. Tuttavia, quando un programma di esercizio viene svolto sotto la
supervisione di un fisioterapista, si possono riscontrare maggiori
miglioramenti. Per migliorare la capacità di movimento
nei pazienti che presentano rigidità, sono stati proposti esercizi e tecniche
di rilassamento, come dolci dondolii, che aiutano a diminuire l'eccessiva
tensione muscolare. Inoltre, a causa della postura flessa in avanti e delle
disfunzioni respiratorie presenti nella fase avanzata della malattia, gli
esercizi di respirazione profonda diaframmatica sono utili per migliorare la
mobilità della parete toracica e della funzionalità vitale. Per quanto riguarda
la deambulazione, i fisioterapisti possono proporre una serie di strategie per migliorare
la mobilità e la sicurezza funzionale le quali puntano a migliorare la velocità
di andatura, la lunghezza del passo, il movimento del tronco e del braccio. Gli
esercizi studiati per rafforzare la muscolatura si sono dimostrati utili per
migliorare la funzionalità motoria nei pazienti con debolezza muscolare e
debolezza relativa all'inattività. Tuttavia, i rapporti mostrano una
significativa interazione tra la forza e il momento in cui sono stati assunti i
farmaci. Pertanto, si raccomanda che i pazienti eseguano gli esercizi da 45
minuti a un'ora dopo aver assunto la terapia, ovvero quando il paziente è al
meglio.
Prima di concludere, un piccolo cenno
va fatto anche sulla terapia chirurgica e sulla terapia genica.
La terapia chirurgica della malattia
di Parkinson, abbandonata con la scoperta della Levodopa, è stata nuovamente
utilizzata per quei malati per i quali la terapia farmacologica non è più
sufficiente, grazie ai grandi miglioramenti nelle tecniche che si sono avuti
negli ultimi decenni. Attualmente la tecnica più utilizzata è la chirurgia
stereotassica che permette di trattare punti in profondità nel parenchima
cerebrale con precisione millimetrica, grazie all'ausilio di dispositivi
radiologici. La stimolazione profonda cerebrale (Deep Brain Stimulation, DBS) è
il trattamento chirurgico più usato e comporta l’impianto di un dispositivo
medico, chiamato pacemaker cerebrale che invia impulsi elettrici a specifiche
zone del cervello. Tale intervento permette una buona remissione clinica e una
significativa riduzione della dipendenza da Levodopa: uno studio pubblicato da Journal
of the American Medical Association ed effettuato su un campione di 225 malati,
ha evidenziato, nel 71% dei casi, decisivi miglioramenti nei movimenti e nella
diminuzione dei tremori in seguito alla DBS, rispetto al 30% che prendeva solo
farmaci.
La terapia genica comporta l’uso di
virus non infettivi per portare un gene in una parte del cervello, il nucleo
subtalamico, che regola il circuito motorio. Il gene serve per produrre il
neurotrasmettitore GABA che è deficitario nei pazienti affetti da malattia di Parkinson,
per cui la sua iniezione ha lo scopo di stimolare la produzione di questo
neurotrasmettitore per normalizzare la funzione del circuito motorio.
Nel 2010 vi erano quattro studi clinici che avevano
utilizzato la terapia genica nella malattia di Parkinson. Non vi sono stati
importanti effetti negativi in questi studi, anche se l'utilità clinica della
terapia genica è ancora da determinare. Un ulteriore risultato positivo è stato
riportato nel 2011. Altri promettenti recenti ricerche indicano la possibilità
di usare tecniche di ingegneria genetica per "infettare" opportunamente
i mitocondri di cellule dopaminergiche di topi con una proteina (beta 2.7) in
grado di proteggere gli stessi dall'insulto e in definitiva rendendo più
resistenti le stesse cellule al danno apoptotico.
AGGIORNAMENTO
In data 27 febbraio 2015, l'EMA ha approvato la SAFINAMIDE come terapia aggiuntiva nel trattamento della malattia di Parkinson. Tale molecola, sviluppata da Zambon e Newron e messa in commercio con il nome di Xadago, è un alfa-amminoacido derivato che secondo gli studi fatti ha un duplice meccanismo di azione basato sull'incremento della funzione dopaminergica (attraverso un'inibizione potente e reversibile della MAO-B e del reuptake della dopamina) e sulla riduzione dell'attività glutammatergica (attraverso una inibizione del rilascio del glutammato). Il parere positivo sull'impiego della safinamide si riferisce all'associazione con L-DOPA in pazienti con malattia in fase moderata o avanzata che presentano fluttuazioni motorie, cioè quelle complicanze associate alla terapia cronica con L-DOPA che si manifestano dopo 5-10 anni di trattamento.
AGGIORNAMENTO
In data 27 febbraio 2015, l'EMA ha approvato la SAFINAMIDE come terapia aggiuntiva nel trattamento della malattia di Parkinson. Tale molecola, sviluppata da Zambon e Newron e messa in commercio con il nome di Xadago, è un alfa-amminoacido derivato che secondo gli studi fatti ha un duplice meccanismo di azione basato sull'incremento della funzione dopaminergica (attraverso un'inibizione potente e reversibile della MAO-B e del reuptake della dopamina) e sulla riduzione dell'attività glutammatergica (attraverso una inibizione del rilascio del glutammato). Il parere positivo sull'impiego della safinamide si riferisce all'associazione con L-DOPA in pazienti con malattia in fase moderata o avanzata che presentano fluttuazioni motorie, cioè quelle complicanze associate alla terapia cronica con L-DOPA che si manifestano dopo 5-10 anni di trattamento.
BIBLIOGRAFIA
- Goodman & Gilman Le basi farmacologiche della terapia Mc Graw Hill ed
- Rang Y Dale Farmacologia Elsevier ed
- Katzung Farmacologia Generale e Clinica Piccin ed.
- Foye, Lemke, Williams Principi di chimica farmaceutica Padova ed.
- Appunti di lezione della Professoressa Tita
- Appunti di lezione della Professoressa Ziche
- Struttura delle molecole www.wikipedia.it
- http://parkinson.musiogianfranco.it/Malattia%20di%20Parkinson.pdf
Buongiorno per quanto riguarda Requip c'è qualcuno che ha avuto gonfiore ed edemi ai piedi come effetti collaterali (problemi che ha portato il paziente a faticare a camminare dal dolore.
RispondiEliminaHow do I make money by making money from my own
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