venerdì 16 gennaio 2015

Malattia di Parkinson





Il parkinsonismo è una sindrome clinica che comprende 4 caratteristiche principali: tremore a riposo che scompare durante i movimenti volontari, rigidità muscolare, alterazione del movimento volontario con globale riduzione della motilità (acinesia), lentezza (bradicinesia) e riduzione dell’ampiezza (ipocinesia);dei movimenti; successivamente interviene la compromissione del bilanciamento posturale e dell’equilibrio che determinano disturbi della deambulazione (passo strascicato) e cadute.



La causa più comune di parkinsonismo è la MALATTIA di PARKINSON idiopatica, descritta per la prima volta da James Parkinson nel 1817 come “paralisi agitante”, ma possono portare a sintomi analoghi anche alcune patologie neurodegenerative rare, l’ictus e l’intossicazione da farmaci bloccanti dei recettori dopaminergici come antipsicotici (aloperidolo, clopromazina) e antiemetici (metoclopramide). Inoltre, considerando che tra i fattori intrinseci legati a questa malattia neurodegenerativa c’è lo stress ossidativo, farmaci che possono esacerbare tale fattore, come ad esempio l’ antiepilettico acido valproico che presumibilmente interferisce con il funzionamento del complesso respiratorio I, vanno sospesi in presenza di segni di parkinsonismo.
La malattia di Parkinson idiopatica è la seconda malattia neurodegenerativa più diffusa dopo la malattia di Alzheimer, andando a colpire l’1% della popolazione sopra i 60 anni e il 4% della popolazione sopra gli 80 anni. Alcuni studi hanno proposto che sia più comune negli uomini rispetto alle donne, ma altri non hanno rilevato particolari differenze tra i due sessi. La malattia, inoltre, sembra essere meno diffusa nelle razze con maggiore melanina probabilmente in quanto questo pigmento è in grado di legare l’MPTP, una potente tossina implicata nella patogenesi.
La caratteristica neuropatologica della malattia di Parkinson è la degenerazione del sistema extrapiramidale, sostenuta dalla DEGENERAZIONE dei NEURONI DOPAMINERGICI PIGMENTATI della SUBSTANTIA NIGRA del CORPO STRIATO (a livello mesencefalico), DEPUTATI AL CONTROLLO FINE dei MOVIMENTI VOLONTARI, e NORMALMENTE CONTROBILANCIATI dai NEURONI COLINERGICI, con la COMPARSA di INCLUSIONI INTRACELLULARI NOTE COME CORPI di LEWY*

 


*I corpi di Lewy sono degli aggregati proteici di forma sferica che si presentano in due varianti morfologiche: quelli sottocorticali (localizzati principalmente nel tronco encefalico) sono rappresentati da un’inclusione citoplasmatica eosinofila consistente di un nucleo denso circondato da un alone fibrillare radiale di 10 nm, il cui principale componente strutturale è l’alfa-sinucleina associata ad altre proteine (ubiquitina e alfa B cristallina); quelli corticali sono corpi meno definiti e non presentano aloni ma sono sempre costituiti da fibrille di alfa-sinucleina.

La perdita progressiva dei neuroni dopaminergici è una caratteristica normale dell’invecchiamento ma nella maggior parte della popolazione tale perdita non raggiunge il 70-80% che è causa dell’insorgenza dei sintomi della malattia parkinsoniana. In genere la malattia è caratterizzata da due fasi: una fase perisintomatica, caratterizzata dalla perdita dei neuroni dopaminergici della substantia nigra, e una fase sintomatica.
Se non curata la malattia di Parkinson progredisce in 5-10 anni fino allo stadio di acinesia rigida in cui il paziente è incapace di prendersi cura di sé e la morte avviene frequentemente per complicanze legate all’ immobilità. 
In genere il sintomo più evidente e precoce è il tremore, anche se va considerato che il 30% degli individui affetti da questa malattia all’ esordio non lo mostra. Il tremore è tipicamente a riposo, con bassa frequenza, scompare durante i movimenti volontari e in genere peggiora nelle situazioni di stress emozionale, mentre è assente durante il sonno. Esso è lieve ed è descritto come l’atto di “contare le monete” o pill-rolling, un termine che deriva dalla somiglianza tra il movimento nei pazienti e la tecnica usata in farmaceutica per preparare manualmente le pillole.
Tale  tremore coinvolge maggiormente la porzione più distale dell’arto e all’insorgenza, cioè nel primo stadio secondo la classificazione in 5 stadi fatta da Hoehn e Yahr, si presenta monolaterale in un braccio o in una gamba, per poi  divenire nello stadio II successivo bilaterale. La lentezza dei movimenti è il sintomo più invalidante dei primi stadi della malattia, in quanto è associata ad una difficoltà in tutto il processo del movimento, dalla pianificazione alla iniziazione e, infine, all’ esecuzione. Il movimento sequenziale e simultaneo viene ostacolato il che crea diversi problemi nell’esecuzione di quelle attività quotidiane che richiedono un controllo fine dei movimenti, come la scrittura, il cucito o il vestirsi; in particolare, durante la scrittura si manifesta tratto tremolante, difficoltà nei tratti rotondeggianti e micrografia.
La rigidità e la resistenza al movimento degli arti è invece causata da una contrazione eccessiva e continua dei muscoli e si manifesta nelle fasi iniziali in maniera asimmetrica andando ad influenzare i muscoli del collo e delle spalle, rispetto ai muscoli del viso e degli arti. La rigidità può essere associata a dolore articolare e tale dolore è una frequente manifestazione iniziale della malattia. La postura di un individuo con malattia di Parkinson tra lo stadio 1 e 3  della malattia è tipica: esso assume una postura fissa, in cui il tronco, le anche, le ginocchia e le caviglie sono flessi lievemente.
Tipica invece degli ultimi stadi è l’instabilità posturale che determina disturbi dell’equilibrio e frequenti cadute: la deambulazione avviene tipicamente mediante piccoli passi, strisciati, con avvio molto problematico e spesso si verifica il fenomeno della festinazione, cioè la progressiva accelerazione della camminata sino a cadere. Con il progredire della malattia la deambulazione risulta impossibile in quanto il paziente non può stare in posizione eretta, si possono avere disturbi della deglutizione con conseguente maggiore lentezza a consumare il pasto e la sensazione che cibo e saliva (scialorrea) si fermino in gola. Anche la mimica facciale progressivamente diventa scarsa e l’espressione impassibile (ipomimia).


STADIO
SCALA HOEHN e YAHR
SCALA HOEHN e YAHR MODIFICATA
1
Coinvolgimento unilaterale, solitamente con solo una minima o nessuna disabilità funzionale
Solo coinvolgimento unilaterale
1.5

Coinvolgimento unilaterale e assiale
2
Coinvolgimento bilaterale o mediano senza compromissione dell'equilibrio
Coinvolgimento bilaterale senza compromissione dell'equilibrio
2.5

Lieve coinvolgimento bilaterale senza recupero sul test a trazione
3
Coinvolgimento bilaterale da medio a moderato; alcune difficoltà posturali; fisicamente indipendente

4
Malattia gravemente debilitante, ancora in grado di camminare o stare in piedi senza assistenza
Grave disabilità; ancora in grado di camminare o stare in piedi senza assistenza
5
Costretto a letto o sulla sedi a rotelle


La SCALA di HOEHN e YAHR è usata comunemente per descrivere i sintomi della progressione della malattia di Parkinson: originariamente pubblicata nel 1967 sulla rivista Neurology è stata successivamente modificata con l’aggiunta degli stadi 1.5 e 2.5  per descrivere  il decorso intermedio della malattia

Oltre ai sintomi motori, la malattia di Parkinson determina anche problemi non motori sopratutto a livello neuropsichiatrico.
Tra i sintomi neuropsichiatrici abbiamo disturbi del linguaggio e deficit cognitivo di cui il più comune è la disfunzione esecutiva che può comprendere difficoltà nella pianificazione, nella flessibilità cognitiva, nel pensiero astratto, nell’ avvio di azioni appropriate e nell’ inibizione delle operazioni  inappropriate. Una persona con malattia di Parkinson ha da 2 a 6 volte il rischio di soffrire di demenza rispetto alla popolazione generale. Anche le alterazioni del comportamento e dell’umore sono più comuni nella malattia di Parkinson rispetto al resto della popolazione: i problemi più frequenti sono depressione, apatia, ansia, difficoltà nel controllo degli impulsi che può portare all’ abuso di farmaci, all’ alimentazione compulsiva, all’ ipersessualità, al gioco d’azzardo.
Infine, oltre ai sintomi cognitivi e motori, la malattia di Parkinson può compromettere altre funzioni dell’organismo: problemi di sonno sono una caratteristica della malattia; le alterazione del sistema nervoso autonomo possono portare a ipotensione ortostatica, pelle grassa (seborrea frontale), eccessiva sudorazione, incontinenza urinaria e alterata funzione sessuale; la costipazione e i disturbi della motilità gastrica possono essere importanti tanto da creare disagio e mettere in pericolo la vita del paziente.
Tutti questi sintomi,  a cui aggiungiamo anche movimenti saccadici (rapidi movimenti involontari degli occhi nella stessa direzione), secchezza oculare, alterazione dell’olfatto, sensazione di dolore e parestesie (formicolio e intorpidimento della pelle), possono verificarsi anche molti anni prima che venga fatta la diagnosi della malattia.
Un medico può diagnosticare la malattia di Parkinson partendo dalla storia clinica e da un esame neurologico. Attualmente non esiste un test che identifichi chiaramente la malattia e la tomografia computerizzata e la risonanza magnetica  del cervello di persone con malattia di Parkinson appaiono di solito normali. Tuttavia, tali tecniche sono utili per escludere altre malattie che possono essere cause secondarie di parkinsonismo, come malattia di Alzheimer, tumori vascolari, ictus cerebrale, patologie dei gangli della base, idrocefalo, parkinsonismo indotto da farmaco.
La medicina nucleare permette uno studio accurato della patologia dal punto di vista anatomico e funzionale. Essa sfrutta l'uso di traccianti radioattivi (ioflupane 32I il cui nome commerciale è DaTSCAN, iometopane detto commercialmente Dopascan) iniettati nell'organismo, i quali vanno a depositarsi nei distretti corporei oggetto di studio, evidenziandone il metabolismo, e quindi in maniera diretta o indiretta, caratteristiche come la vitalità o l'attività. Essendo la malattia di Parkinson una patologia a carico del sistema dopaminergico, i traccianti sono diretti verso il trasportatore della dopamina e verso il trasportatore vescicolare delle monoamine di tipo 2 e verso l'enzima DOPA decarbossilasi. 
La posizione in cui i traccianti vanno a depositarsi vengono rilevati tramite PET e SPECT.
Organizzazioni mediche hanno creato criteri per facilitare e standardizzare il processo diagnostico, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia. I più conosciuti provengono dalla britannica Parkinson's Disease Society Brain Bank e dalla statunitense National Institute of Neurological Disorders and Stroke.
I criteri del primo istituto citato richiedono la presenza di lentezza nei movimenti (bradicinesia) più rigidità, tremore a riposo o instabilità posturale. Nel secondo, tre o più delle seguenti caratteristiche sono necessarie durante l'insorgenza o l'evoluzione: esordio unilaterale, tremore a riposo, progressione nel tempo, asimmetria dei sintomi motori, risposta alla levodopa per almeno cinque anni, decorso clinico di almeno dieci anni e verificarsi di discinesie indotte dall'assunzione eccessiva di levodopa. La precisione di questi criteri diagnostici, valutati dopo autopsia (in cui si cerca la prova della malattia: la presenza di corpi di Lewy nel mesencefalo), è del 75-90%, tuttavia, le stesse linee guida consigliano sempre di valutare periodicamente la diagnosi, dato che la progressione della malattia può far cambiare la stessa opinione.
Un grande sforzo è stato dedicato a cercar di capire come e perché la perdita dello stimolo dopaminergico nigro-striatale possa dar luogo alle caratteristiche cliniche della malattia.
La substantia nigra, insieme allo Striato, a sua volta suddiviso in nucleo caudato, putamen e nucleus accumbens, al globus pallidus, al nucleo subtalamico compongono i Gangli della base, un gruppo di nuclei sottocorticali localizzati alla base di entrambi gli emisferi cerebrali, intensamente interconnessi con la corteccia cerebrale, il talamo e il tronco cerebrale.
I Gangli della base, fanno parte di quel circuito neuronale detto sistema extrapiramidale deputato al controllo del movimento, della postura e dell’equilibrio.
Tale circuito neuronale origina dai neuroni corticali glutaminergici, eccitatori che proiettano sui neuroni GABAergici presenti nello striato.
CORTECCIA --> Glu (+) --> STRIATO
Da qui il segnale può viaggiare attraverso due vie, la via diretta e la via indiretta.
La via diretta è costituita dai neuroni dello striato che usando il GABA proiettano direttamente alla substantia nigra e al globo pallido mediano; da queste stazioni di uscita, tramite il GABA le informazioni arrivano al talamo ventroanteriore e ventrolaterale che invia segnali eccitatori mediati dal Glutammato alla corteccia
STRIATO --> GABA (-) --> SUBSTANTIA NIGRA e GPM --> GABA (-) --> TALAMO VA/VL --> Glu (+) --> CORTECCIA
Pertanto l’effetto netto della stimolazione della via diretta è l’aumento del flusso eccitatorio del talamo alla corteccia, visto che il segnale che giunge alla substantia nigra è inibitorio.
La via indiretta è costituita dai neuroni dello striato che proiettano al globo pallido laterale mediante il GABA; questa struttura innerva a sua volta, usando il GABA, i nuclei sottotalamici che dirigono i loro segnali alla substantia nigra e al globo pallido mediano per mezzo del Glutammato
STRIATO --> GABA (-) --> GLOBO PALLIDO LATERALE --> GABA (-) --> NUCLEI SOTTOTALAMICI --> Glutammato (+) --> SUBSTANTIA NIGRA e GPM --> GABA (-) --> TALAMO VA/VL --> Glu (+)--> CORTECCIA
Pertanto l’effetto netto della stimolazione della via indiretta è una riduzione del flusso eccitatorio del talamo alla corteccia, visto che il segnale che giunge alla substantia nigra è eccitatorio.



La dopamina ha un diverso effetto su via diretta e indiretta.
Questa catecolamina viene sintetizzata nelle terminazioni dei neuroni dopaminergici a partire dalla tirosina (Tyr), la quale attraversa la BEE a seguito di un processo attivo. Il passaggio limitante la sua sintesi è la conversione della Tyr in L-DOPA catalizzata dalla tirosina idrossilasi; la L-DOPA viene convertita in DA dalla decarbossilasi degli amminoacidi aromatici, immagazzinata in vescicole grazie a un trasportatore attivo (inibito dalla reserpina) e rilasciata attraverso una esocitosi calcio mediata. Quando la dopamina si trova nello spazio intersinaptico, la sua azione viene conclusa per ricaptazione presinaptica (inibita dalla cocaina) o, in alternativa dalla degradazione operata dalle MAO e dalle COMT a dare acido 3,4 diidrossifenilacetico (DOPAC) e acido 3-metossi-4-idrossifenilacetico (HVA).


L’azione della dopamina si esplica attraverso due famiglie di recettori, tutti recettori metabotropici associati alle proteine G e possono essere pre- o post-sinaptici: i recettori della famiglia D1 sono solo post sinaptici e agendo sulla proteina Gs, inducono l’adenilatociclasi con un aumento della concentrazione di cAMP; i recettori della famiglia D2 sono sia pre- che post-sinaptici e, agendo sulla proteina Gi, diminuiscono la concentrazione di cAMP.
Entrambi i recettori sono abbondantemente espressi nello striato e vanno a modulare il D1 la via diretta e il D2 la via indiretta.
Ora, essendo D1 eccitatorio e D2 inibitorio, la dopamina rilasciata dai neuroni dopaminergici della parte compatta della substantia nigra aumenterà la stimolazione della via diretta e ridurrà la via indiretta. Ciò significa che fisiologicamente la dopamina della substantia nigra aumenta la stimolazione talamo-corteccia, per cui nella malattia di Parkinson si avrà un aumento del flusso inibitorio della via indiretta e quindi un ridotto flusso di segnali eccitatori dal talamo alla corteccia.
In altre parole, nella malattia di Parkinson si assiste ad una demodulazione dell’armonica ed equilibrata attivazione tra via diretta e indiretta del circuito motorio dei gangli della base.





Inoltre, dalla substatia nigra originano anche fibre dirette ad aree coinvolte nei processi emotivi ed intellettivi, il che spiega il motivo per cui nel paziente affetto da malattia di Parkinson oltre ai classici segni in cui è coinvolto il sistema motorio, vi sia un universo di manifestazioni  sintomatologiche, rappresentato da alterazioni psichiche e cognitive.

I FARMACI comunemente usati nel trattamento della malattia di Parkinson sono tutte molecole che tendono a stimolare l’azione della dopamina.
La LEVODOPA (Sinemet®, Duodopa®) è il farmaco più efficace nel trattamento di questa malattia. Quando somministrata per via orale, la Levodopa viene rapidamente assorbita dall’intestino grazie ad un sistema di trasporto attivo per gli amminoacidi aromatici; esiste una significativa competizione all’assorbimento tra il farmaco e gli amminoacidi assunti con la dieta per cui la sua somministrazione ai pasti ritarda l’assorbimento e riduce la concentrazione plasmatica, analogamente a quanto succede per l’attraversamento della BEE, anch’esso mediato da un sistema di trasporto per gli amminoacidi aromatici.

Di per sé inerte, nel cervello la Levodopa viene convertita in dopamina dalla decarbossilasi principalmente entro i terminali presinaptici dei neuroni dopaminergici dello striato e tale dopamina, responsabile dell’efficacia terapeutica, viene ricaptata o degradata dalle MAO e dalle COMT dopo il suo rilascio.
Nella pratica clinica, la Levodopa è quasi sempre somministrata in combinazione con un INIBITORE PERIFERICO DELLA DECARBOSSILASI degli AMMINOACIDI AROMATICI, come CARBIDOPA (Sinemet®: 100+25 mg;) e BENSERAZIDE (Madopar®: 100+25 mg). 

Infatti, quando la Levodopa viene somministrata sola subisce un’ampia decarbossilazione da parte degli enzimi localizzati sulla mucosa intestinale e in altri siti periferici, comportando, da un lato uno scarso raggiungimento di farmaco nel circolo cerebrale con una penetrazione nel SNC minore dell’1%, dall’altro, la produzione di effetti collaterali da parte della dopamina circolante, in primis la nausea. Inoltre, la dopamina in circolo può attivare i recettori dopaminergici vascolari e produrre ipotensione, mentre agendo sui recettori α e β adrenergici può indurre aritmie cardiache, specie in pazienti con disturbi pre-esistenti nella conduzione cardiaca.
La carbidopa e la benserazide, non attraversando la BEE, inibiscono la decarbossilazione periferica, aumentando così significativamente la quota di Levodopa disponibile a passare nel SNC e riducendo gli effetti collaterali periferici.

La terapia con Levodopa, può avere effetti positivi su tutti i sintomi della malattia e, soprattutto negli stadi precoci, il grado di miglioramento può essere addirittura completo; inoltre, il fatto che la sua durata d’azione sia superiore all’emivita della molecola nel plasma, ha suggerito che il sistema dopaminergico nigrostriatale nelle fasi iniziali della malattia sia ancora in grado di immagazzinare e rilasciare la dopamina.
Tuttavia, la principale limitazione all’uso a lungo termine della Levodopa è la perdita, col tempo, di questa capacità di controllare il deficit dopaminergico, determinando così fluttuazioni drammatiche dello stato motorio del paziente. Un problema comune è lo sviluppo di un fenomeno di riduzione dell’effetto, detto wearing off, in cui ciascuna dose di levodopa migliora la motilità per un tempo intorno a 1-2 ore ma i sintomi si ripresentano rapidamente al termine dell’intervallo di attività della dose somministrata. L’aumento della dose o della frequenza di somministrazione può migliorare la situazione, ma questa pratica è spesso limitata alla comparsa di discinesie e di movimenti involontari anormali. Questi movimenti possono essere fonte di disturbo e disabilitanti come gli stessi sintomi della malattia di Parkinson. Negli stadi più avanzati dalle malattia, si possono invece verificare fluttuazioni rapide da uno stadio senza sintomi a uno in cui si verificano discinesie disabilitanti, situazione chiamata fenomeno on/off.
In aggiunta alle fluttuazioni motorie e alla nausea, un effetto comune e preoccupante, specie nelle persone anziane, è la comparsa di allucinazioni, confusione, fluttuazioni del tono dell’umore, generalmente caratterizzate da depressione, apatia, irritabilità e ansia.
E’ bene tener presente, specie nei pazienti anziani sotto politerapia, che i farmaci antipsicotici convenzionali (fenotiazine) sono efficaci contro tali sintomi ma possono peggiorare i sintomi parkinsoniani probabilmente per azione sui recettori D2, ma l’uso recente di  agenti antipsicotici atipici come la clozapina ha mostrato di non peggiorare il parkinsonismo.
Una questione importante e irrisolta sull’uso della Levodopa in questa malattia è se essa sia in grado di alterare l’andamento del processo degenerativo o se abbia azione solo sulla sintomatologia. In particolar modo un aspetto preoccupa: se, come è stato suggerito, la produzione di radicali liberi da parte del metabolismo della dopamina, contribuisce alla morte dei neuroni nigrostriatali, l’aggiunta di Levodopa potrebbe accelerare tale processo degenerativo. Tuttavia, su questa ipotesi non sono state ancora formulate sufficienti prove.

Per potenziare l’azione della dopamina proveniente dai neuroni ancora sani o dalla decarbossilazione della Levodopa è razionale l’impiego di composti che agiscano come INIBITORI della DEGRADAZIONE della DOPAMINA, come farmaci ANTIMAO o ANTI COMT, per aumentare così la sua concentrazione plasmatica.



Mentre bisogna star attenti all’aumento dell’azione della Levodopa quando somministrata in associazione con inibitori aspecifici delle MAO o selettivi per le MAO-A in quanto, a causa della ridotta metabolizzazione, si possono verificare crisi ipertensive per aumento delle catecolamine potenzialmente fatali e iperpiressia (la sospensione di antiMAO aspecifici deve essere effettuata 14 giorni prima dell’inizio della terapia con Levodopa) risulta invece essere ben tollerata in pazienti con malattia di Parkinson lieve-moderata, la SELEGILINA (Egibren®), un inibitore irreversibile e selettivo (dosi ≤ 10 mg) dell’isoforma MAO-B predominante nello striato e responsabile del metabolismo della dopamina in tale sede. Essa viene usata nel trattamento sintomatico della malattia di Parkinson, anche se con modesti effetti, allo scopo di ritardare la degradazione della dopamina nello striato.
Inoltre, dato il recente interesse sul ruolo che in tale malattia possono avere i radicali liberi e lo stress ossidativo, è stato proposto, anche se ancora con poche evidenze, che essa, ritardando il metabolismo della dopamina possa dare neuroprotezione.
E’importante tenere presente che la selegillina può interagire con antidepressivi triciclici e inibitori del reuptake della serotonina potenziandone gli effetti e può indurre agitazione dopo somministrazione dell’analgesico meperidina, mentre i suoi metaboliti, amfetamina e metamfetamina, possono causare ansia e insonnia.
In alternativa alla selegilina si può impiegare la RASAGILINA (Azilect®) un inibitore delle monoamminossidasi A e B, ma con attività maggiore nei confronti delle MAO-B.
La frazione di Levodopa e dopamina che viene metabolizzata dalle COMT in 3-O-metildopa e 3 metossitiramina inattive, può venir abbassata anche usando INIBITORI delle COMT come TOLCAPONE (Tasmar®) e ENTACAPONE (Stalevo®: Levodopa+carbidopa+entacapone):

Tali molecole, inibendo l’azione delle COMT, portano ad un aumento dell’emivita plasmatica della Levodopa e della frazione di dose che raggiunge il SNC.
Infatti, quando è inibita l’attività della dopamina decarbossilasi periferica da parte della carbidopa, aumenta l’attività delle COMT e si viene a formare una considerevole concentrazione di 3-O-metildopa che va a competere con la Levodopa per il trasporto attivo all’interno del SNC; pertanto, l’inibizione delle COMT da parte di queste molecole causa una diminuzione della concentrazione plasmatica di 3-O-metildopa, con conseguente aumento della captazione centrale di Levodopa e maggiori concentrazioni cerebrali di dopamina.
Il Tolcapone ha una emivita relativamente lunga che richiede 2-3 somministrazioni al giorno e agisce inibendo sia le COMT centrali che quelle periferiche; l’Entacapone è più selettivo per le COMT periferiche e ha una durata d’azione più breve (circa 2h) che ne permette la somministrazione contemporanea alla combinazione Levodopa/Carbidopa. 

Molto usati nel trattamento iniziale della malattia di Parkinson sono gli AGONISTI dei RECETTORI DOPAMINERGICI, tra i quali sono stati selezionati 4 composti, due più vecchi e due più recenti e selettivi.
I primi comprendono BROMOCRIPTINA (Parlodel®) e PERGOLIDE (Nopar®), entrambi derivati dall’Ergot,  e con uno spettro di azione e effetti avversi simili: la bromocriptina è un potente agonista D2 e un antagonista parziale per D1, mentre la pergolide è un agonista per entrambe le forme recettoriali.
Gli agonisti più recenti sono ROPINIROLO (Requip®), PRAMIPEXOLO (Mirapexin®), selettivi verso i recettori D2.
Tutte e quattro le molecole sono ben assorbite per via orale, hanno proprietà terapeutiche simili: agiscono alleviando i sintomi clinici della malattia in maniera analoga alla Levodopa, tuttavia, non richiedendo per la loro attività una trasformazione enzimatica, essi non dipendono dalle capacità funzionali dei neuroni nigrostriatali e ciò può portare ad una maggiore efficacia rispetto alla Levodopa negli stati più avanzati della malattia. Inoltre, essi hanno un’azione potenzialmente più selettiva e una durata d’azione molto superiore alla Levodopa che li rende utili nella gestione delle fluttuazioni dose-dipendente dello stato motorio. Infine, se teniamo presente l’ipotesi che la formazione dei radicali liberi  derivanti dal metabolismo della dopamina contribuisca alla morte neuronale, solo gli agonisti dei recettori dopaminergici potrebbero avere la capacità di modificare il decorso della malattia o almeno di non incrementare il danno.
Tutti questi effetti hanno portato all’impiego di questi composti come alternativa piuttosto che in aggiunta alla terapia con Levodopa.
La principale distinzione tra la vecchia e la nuova generazione di questi farmaci risiede nella tollerabilità: la terapia con bromocriptina e pergolide può causare profonda ipotensione che richiede di iniziare con la somministrazione di un dosaggio basso; al contrario, il trattamento con Ropinirolo e Pramipexolo può esser iniziato più rapidamente. Sebbene la nuova generazione dia minor effetti collaterali, le due molecole possono dare improvvisi attacchi di sonno durante le attività diurne, un effetto poco frequente ma che deve esser considerato.

Molto prima della scoperta della Levodopa, sono stati largamente usati nel trattamento del Parkinsonismo gli ANTAGONISTI dei RECETTORI MUSCARINICI: nello striato, infatti, poiché le sinapsi dopaminergiche provenienti dalla substantia nigra inibiscono le terminazioni colinergiche, nella malattia di Parkinson queste risultano essere molto più attive. Gli antagonisti attualmente in uso, come TRIESILFENIDILE (Artane®), BIPERIDENE (Akineton®), ORFENANDINA (Disipal®) e BENZTROPINA MESILATO (Cogentin®, non disponibile in Italia) sono utili negli stadi iniziali della malattia o in aggiunta alla terapia dopaminergica, soprattutto per il controllo della scialorrea, del tremore e della rigidità, ma hanno scarsi effetti sulla bradicinesia.
Gli effetti collaterali di questi farmaci derivano dall’azione anticolinergica centrale e periferica: sedazione e confusione mentale, stipsi, ritenzione urinaria, alterazioni della vita. Tali sostanze devono esser usate con cautela in caso di glaucoma.

Nel trattamento iniziale della malattia di Parkinson lieve-moderata o in associazione alla Levodopa in quei pazienti con fluttuazioni legate al dosaggio si usa anche l’AMANTADINA (Mantadan®) e il correlato MEMANTINA.
L’Amantadina, farmaco antivirale usato nella profilassi e nel trattamento dell’influenza A ha un’azione antiparkinsoniana con un meccanismo ancora non chiaro: si pensa che la molecola possa alterare il rilascio o il reuptake della dopamina, che possa avere proprietà anticolinergiche o una certa attività sui recettori NMDA del Glu.

Oltre alla somministrazione dei farmaci appena descritti, è possibile seguire una terapia parallela per il controllo dei sintomi secondari e per migliorare la qualità della vita del paziente come farmaci per la cura della depressione, dell’ansia e della stipsi. Inoltre, l’esperienza fornisce alcune prove che i problemi di linguaggio e di mobilità sono in grado di migliorare grazie alla riabilitazione: l’esercizio fisico regolare, con o senza fisioterapia, può essere utile per mantenere e migliorare la mobilità, la flessibilità, la forza, l'andatura e la qualità della vita. Tuttavia, quando un programma di esercizio viene svolto sotto la supervisione di un fisioterapista, si possono riscontrare maggiori miglioramenti. Per migliorare la capacità di movimento nei pazienti che presentano rigidità, sono stati proposti esercizi e tecniche di rilassamento, come dolci dondolii, che aiutano a diminuire l'eccessiva tensione muscolare. Inoltre, a causa della postura flessa in avanti e delle disfunzioni respiratorie presenti nella fase avanzata della malattia, gli esercizi di respirazione profonda diaframmatica sono utili per migliorare la mobilità della parete toracica e della funzionalità vitale. Per quanto riguarda la deambulazione, i fisioterapisti possono proporre una serie di strategie per migliorare la mobilità e la sicurezza funzionale le quali puntano a migliorare la velocità di andatura, la lunghezza del passo, il movimento del tronco e del braccio. Gli esercizi studiati per rafforzare la muscolatura si sono dimostrati utili per migliorare la funzionalità motoria nei pazienti con debolezza muscolare e debolezza relativa all'inattività. Tuttavia, i rapporti mostrano una significativa interazione tra la forza e il momento in cui sono stati assunti i farmaci. Pertanto, si raccomanda che i pazienti eseguano gli esercizi da 45 minuti a un'ora dopo aver assunto la terapia, ovvero quando il paziente è al meglio.
Prima di concludere, un piccolo cenno va fatto anche sulla terapia chirurgica e sulla terapia genica.
La terapia chirurgica della malattia di Parkinson, abbandonata con la scoperta della Levodopa, è stata nuovamente utilizzata per quei malati per i quali la terapia farmacologica non è più sufficiente, grazie ai grandi miglioramenti nelle tecniche che si sono avuti negli ultimi decenni. Attualmente la tecnica più utilizzata è la chirurgia stereotassica che permette di trattare punti in profondità nel parenchima cerebrale con precisione millimetrica, grazie all'ausilio di dispositivi radiologici. La stimolazione profonda cerebrale (Deep Brain Stimulation, DBS) è il trattamento chirurgico più usato e comporta l’impianto di un dispositivo medico, chiamato pacemaker cerebrale che invia impulsi elettrici a specifiche zone del cervello. Tale intervento permette una buona remissione clinica e una significativa riduzione della dipendenza da Levodopa: uno studio pubblicato da Journal of the American Medical Association ed effettuato su un campione di 225 malati, ha evidenziato, nel 71% dei casi, decisivi miglioramenti nei movimenti e nella diminuzione dei tremori in seguito alla DBS, rispetto al 30% che prendeva solo farmaci.
La terapia genica comporta l’uso di virus non infettivi per portare un gene in una parte del cervello, il nucleo subtalamico, che regola il circuito motorio. Il gene serve per produrre il neurotrasmettitore GABA che è deficitario nei pazienti affetti da malattia di Parkinson, per cui la sua iniezione ha lo scopo di stimolare la produzione di questo neurotrasmettitore per normalizzare la funzione del circuito motorio.
Nel 2010 vi erano quattro studi clinici che avevano utilizzato la terapia genica nella malattia di Parkinson. Non vi sono stati importanti effetti negativi in questi studi, anche se l'utilità clinica della terapia genica è ancora da determinare. Un ulteriore risultato positivo è stato riportato nel 2011. Altri promettenti recenti ricerche indicano la possibilità di usare tecniche di ingegneria genetica per "infettare" opportunamente i mitocondri di cellule dopaminergiche di topi con una proteina (beta 2.7) in grado di proteggere gli stessi dall'insulto e in definitiva rendendo più resistenti le stesse cellule al danno apoptotico.

AGGIORNAMENTO

In data 27 febbraio 2015, l'EMA ha approvato la SAFINAMIDE come terapia aggiuntiva nel trattamento della malattia di Parkinson. Tale molecola, sviluppata da Zambon e Newron e messa in commercio con il nome di Xadago, è un alfa-amminoacido derivato che secondo gli studi fatti ha un duplice meccanismo di azione basato sull'incremento della funzione dopaminergica (attraverso un'inibizione potente e reversibile della MAO-B e del reuptake della dopamina) e sulla riduzione dell'attività glutammatergica (attraverso una inibizione del rilascio del glutammato). Il parere positivo sull'impiego della safinamide si riferisce all'associazione con L-DOPA in pazienti con malattia in fase moderata o avanzata che presentano fluttuazioni motorie, cioè quelle complicanze associate alla terapia cronica con L-DOPA che si manifestano dopo 5-10 anni di trattamento.


BIBLIOGRAFIA
  • Goodman & Gilman Le basi farmacologiche della terapia Mc Graw Hill ed
  • Rang Y Dale Farmacologia Elsevier ed
  • Katzung Farmacologia Generale e Clinica Piccin ed.
  • Foye, Lemke, Williams Principi di chimica farmaceutica Padova ed.
  • Appunti di lezione della Professoressa Tita
  • Appunti di lezione della Professoressa Ziche
  • Struttura delle molecole www.wikipedia.it
  • http://parkinson.musiogianfranco.it/Malattia%20di%20Parkinson.pdf 

2 commenti:

  1. Buongiorno per quanto riguarda Requip c'è qualcuno che ha avuto gonfiore ed edemi ai piedi come effetti collaterali (problemi che ha portato il paziente a faticare a camminare dal dolore.

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