martedì 20 gennaio 2015

Malattia di Alzheimer




La MALATTIA di ALZHEIMER è una malattia degenerativa progressiva del cervello caratterizzata dalla perdita delle capacità di acquisire nuove informazioni e di ricordare nozioni acquisite precedentemente.
La patologia è stata descritta per la prima volta nel 1906 dallo psichiatra e neurologo tedesco Alois Alzheimer e inizialmente venne identificata come malattia rara; attualmente, invece, si stima ne soffrano circa 500.000 persone in Italia e 26.6 milioni nel mondo, con una netta prevalenza di donne (per via della maggior vita media rispetto agli uomini). A livello epidemiologico, tranne che in rare forme  genetiche familiari early-onset (cioè a esordio giovanile), il fattore maggiormente correlato all’incidenza della patologia è l’età: molto rara sotto i 65 anni, la sua incidenza aumenta progressivamente con l’età, per raggiungere una diffusione significativa nella popolazione oltre gli 85 anni.

Definita anche "demenza di Alzheimer", viene appunto catalogata tra le demenze, essendo un deterioramento cognitivo cronico progressivo, e tra tutte le demenze è la più comune, rappresentando l’80-85% di tutti i casi.
Essa differisce dalla perdita di memoria che spesso si verifica in età avanzata in quanto va ad incidere anche sul comportamento, la personalità, le capacità cognitive e le abilità quotidiane della persona.
Infatti, anche se il decorso clinico della malattia è in parte specifico per ogni individuo, la patologia causa diversi sintomi comuni alla maggior parte dei pazienti: la prima manifestazione clinica (fase I, demenza lieve) è un deficit di memoria circoscritto a sporadici episodi della vita quotidiana, ovvero disturbi di quella che viene chiamata on-going memory (ricordarsi cosa si è mangiato a pranzo, cosa si è fatto durante il giorno) e della memoria prospettica (che riguarda l’organizzazione del futuro prossimo, come ricordarsi di andare ad un appuntamento); poi man mano il deficit aumenta (fase II, demenza moderata)  e la perdita della memoria arriva a colpire anche la memoria episodica retrograda (riguardante fatti della propria vita o eventi pubblici del passato) e la memoria semantica (le conoscenze acquisite), mentre la memoria procedurale (che riguarda l’esecuzione automatica di azioni) viene relativamente risparmiata fino alle fasi intermedio-avanzate della malattia.
A partire dalle fasi lievi e moderate possono poi manifestarsi crescenti difficoltà di produzione del linguaggio, con incapacità nella definizione di nomi di persone od oggetti, e frustranti tentativi di "trovare le parole", seguiti poi nella fase III o demenza grave, da disorganizzazione nella produzione di frasi e uso sovente scorretto del linguaggio (confusione sui significati delle parole, ecc.). 
Sempre nelle fasi lievi-moderate, la pianificazione e gestione di compiti complessi (gestione di documenti, attività lavorative di concetto, gestione del denaro, guida dell'automobile, cucinare, ecc.) cominciano a diventare progressivamente più impegnative e difficili, fino a divenire impossibili e richiedere assistenza continuativa.
Nelle fasi moderate e avanzate, inoltre, possono manifestarsi problematiche comportamentali (vagabondaggio, coazione a ripetere movimenti o azioni, reazioni comportamentali incoerenti) o psichiatriche (confusione, ansia, depressione, e occasionalmente deliri e allucinazioni) fino ad arrivare ad un disorientamento nello spazio, nel tempo o nella persona (ovvero la mancata o confusa consapevolezza di dove si è situati nel tempo, nei luoghi e/o nelle identità personali, proprie o di altri - comprese le difficoltà di riconoscimento degli altri significativi). In tali fasi si aggiungono difficoltà progressive anche nella cura della persona (lavarsi, vestirsi, assumere farmaci, ecc.).
Pertanto, col progredire della malattia, le persone  non solo presentano deficit di memoria, ma risultano deficitarie nelle funzioni strumentali mediate dalla corteccia associativa e possono pertanto presentare afasia (perdita di capacità di produrre o comprendere il linguaggio) e aprassia (incapacità di compiere gesti coordinati e diretti a un determinato fine), fino a presentare disturbi neurologici e poi internistici che portano ad una compromissione progressiva della salute.
Da tutto ciò deriva che per la sua ampia e crescente diffusione nella popolazione, la limitata e comunque non risolutiva efficacia delle terapie disponibili, e le enormi risorse necessarie per la sua gestione (sociali, emotive, organizzative ed economiche) che ricadono in gran parte sui familiari dei malati, a loro volta sottoposti ai forti stress tipici di chi assiste tali malati, rendono la malattia di Alzheimer una delle patologie a più grave impatto sociale del mondo.
Anche se la diagnosi clinica viene confermata a livello patologico solo con l’analisi istologica del tessuto del cervello post-mortem, la malattia di Alzheimer viene diagnosticata clinicamente dalla storia del paziente, da osservazioni cliniche, dalla presenza di particolari caratteristiche neurologiche e neuropsicologiche, dall’impiego di sistemi avanzati di imaging biomedico e dall’esclusione di altre patologie cerebrali o altri tipi di demenza.
Diverse organizzazioni mediche hanno creato i criteri diagnostici per facilitare e standardizzare il processo diagnostico. Lo statunitense National Institute of Neurological Disorders and Stroke (NINCDS) e l'Associazione dei Malati di Alzheimer ha istituito il criterio diagnostico NINCDS-ADRDA nel 1984, in seguito aggiornato nel 2007. Questo criterio richiede che per definire la diagnosi di Alzheimer, la presenza di deficit cognitivi e la sospetta sindrome di demenza debbano esser confermati da test di screening neuropsicologici in grado di valutare diverse funzioni e competente cognitive, come il saper copiare disegni simili a quelli mostrati in alcune foto, ricordare parole, leggere e sottrarre numeri in serie. Colloqui con i membri della famiglia sono inoltre utilizzati nella valutazione funzionale della malattia in quanto permettono di fornire informazioni sulla capacità di vita quotidiana, così come la diminuzione, nel tempo, della funzione mentale della persona: il punto di vista di chi assiste il malato, infatti, è particolarmente importante, dato che una persona con Alzheimer è spesso inconsapevole del suo deficit. 
Altri test clinici supplementari forniscono informazioni aggiuntive su alcune caratteristiche della malattia, o vengono utilizzati per escludere altre diagnosi. È comune eseguire test di funzionalità tiroidea, valutare i livelli di vitamina B12, escludere la sifilide, escludere problemi metabolici (tra cui test per la funzione renale, i livelli di elettroliti e per il diabete), valutare i livelli di metalli pesanti (ad esempio il piombo e il mercurio), e l'anemia. È anche necessario escludere la presenza di sintomatologia psichiatrica, come deliri, disturbi dell'umore, disturbi del pensiero di natura psichiatrica, o pseudodemenze depressive.
In particolare vengono utilizzati test psicologici per la rilevazione della depressione, dal momento che la depressione può essere concomitante con l'Alzheimer, essere un segno precoce di deficit cognitivo, o esserne addirittura la causa. 
In associazione con le valutazioni dello stato mentale, la tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) e la Tomografia a emissione di positroni (PET), possono essere utilizzati per la conferma di una diagnosi di Alzheimer. Una nuova tecnica nota come PiB PET è stata sviluppata per visualizzare direttamente e chiaramente immagini di depositi di beta-amiloide (di cui parleremo dettagliatamente dopo) in vivo, utilizzando un radio tracciante (il carbonio 11) che si lega selettivamente ai depositi A-beta; studi recenti suggeriscono che la PiB-PET è precisa all'86% nel predire quali persone, già affette da decadimento cognitivo lieve, svilupperanno la malattia di Alzheimer entro due anni, e al 92% in grado di escludere la probabilità di sviluppare il morbo di Alzheimer
In fase di studio, anche perché meno costosa di altre tecniche di imaging è la risonanza magnetica volumetrica che è in grado di rilevare cambiamenti nella dimensione delle regioni del cervello visto che l’atrofia di alcune regioni si sta mostrando come un indicatore diagnostico della malattia.
Infatti, se analizziamo la sua patogenesi, la malattia di Alzheimer è caratterizzata da una GRAVE ATROFIA della CORTECCIA CEREBRALE e dalla PERDITA dei NEURONI CORTICALI e SOTTOCORTICALI.
In sezione laterale un cervello colpito da malattia di Alzheimer mostra una diminuzione del volume (atrofia), della massa di alcune regioni cerebrali e un solco allargato, mentre in sezione trasversa si può notare una dilatazione dei ventricoli, un allargamento e approfondimento dei solchi e delle scissure, una riduzione dei giri, ma sopratutto una atrofia e degenerazione simmetrica fronto-tempero-parietale dei neuroni colinergici sottocorticali, in particolare i nuclei di Meynert, che supportano, essendo fonti di acetiltransferasi, l'innervazione colinergica di tutta la corteccia.



Tutto ciò spiega il motivo per cui dall’analisi del contenuto di neurotrasmettitori nella corteccia si sia evidenziato un notevole e sproporzionato deficit di acetilcolina nei pazienti affetti da questa malattia.
Il deficit selettivo di acetilcolina così come l’osservazione che gli antagonisti colinergici centrali, quali l’atropina, possono indurre uno stato confusionale somigliante con quello della malattia, ha dato vita alla cosiddetta IPOTESI COLINERGICA in cui tale deficit è visto come una delle cause del declino cognitivo e della comparsa dei sintomi comportamentali come psicosi, agitazione, apatia-indifferenza, disinibizione, comportamenti motori aberranti.
Il tentativo di aumentare la funzione colinergica nei pazienti affetti da Alzheimer per stabilizzare e/o aumentare le funzioni cognitive e influenzare il comportamento, ha costituito uno dei più importanti approcci farmacologici per il trattamento della malattia.
Inizialmente si sono usati PRECURSORI della SINTESI di ACETILCOLINA, come la COLINA CLOROIDRATO e FOSFATIDILCOLINA (Lecitina) che, sebbene ben tollerati, non hanno avuta alcuna efficacia significativa.
L’iniezione intracerebroventricolare di AGONISTI COLINERGICI, come il BETANECOLO, sembra aver effetti benefici, ma questo trattamento, richiedendo l’impianto chirurgico di un sistema a rilascio connesso con lo spazio subaracnoideo, è troppo invasivo per avere utilità pratica.
Una strategia più fortunata è stata quella di usare INIBITORI dell’ACETILCOLINESTERASI, enzima catabolico dell’acetilcolina. Il primo ad esser impiegato è stata la FISOSTIGMINA, un inibitore reversibile ad azione rapida che produce un miglioramento delle risposte di apprendimento in modelli animali e un leggero miglioramento della memoria in pazienti affetti da Alzheimer; tuttavia, il suo uso è limitato dalla breve emivita e dalla tendenza a sviluppare a dosi terapeutiche un eccesso di attività colinergica.
Attualmente gli inibitori dell’acetilcolinesterasi approvati sono: la tacrina, il donezepil, la rivastigmina e la galantamina.
La TACRINA (Cognex®) è un potente inibitore centrale dell’acetilcolinesterasi con emivita di 3-5 h che viene metabolizzata dal CYP1A2. Studi sulla somministrazione per via orale di tale sostanza in associazione con la lecitina hanno dimostrato un effetto seppur modesto su alcuni parametri della prestazione mnemonica, tuttavia i suoi effetti collaterali sono spesso significativi: nell’ambito delle dosi terapeutiche (40-60 mg/die) in più di 1/3 dei pazienti si sono osservati crampi addominali, anoressia, nausea, vomito e diarrea, a volte alleviati dall’assunzione di cibo, mentre in più del 50% dei pazienti si è osservato un aumento di circa 3 volte delle transaminasi, il che ne ha limitato l’impiego e la non approvazione all’uso in Italia.
Il DONEPEZIL (Aricept®) è stato il primo farmaco con azione selettiva sull’acetilcolinesterasi del cervello e non su quella periferica. Induce un aumento delle capacità cognitive e delle funzioni globali in pazienti con Alzheimer lieve-moderato e ha una lunga emivita (70h), che permette di effettuare un’unica somministrazione giornaliera (5-10 mg). Ben assorbito per via orale con buona biodisponibilità, viene metabolizzato da CYP3A e CYP2D6 e eliminato per via renale e fecale. E’ ben tollerato anche se a dosi alte sono associabili effetti avversi colinergici.
La RIVASTIGMINA (Exelon®) e la GALANTAMINA (Reminyl®) somministrate rispettivamente in dosi 3-12 mg/die e 20-50 mg/die hanno dimostrato di produrre miglioramento cognitivo e comportamentale simile. La prima viene assorbita per via orale, presenta emivita di 1.5 h e metabolizzazione indipendente dal CYP; pur se ben tollerata può dare effetti collaterali gastro-intestinali, compresa la perdita di peso, osservabili maggiormente con la concomitante assunzione di cibo.
L’azione della seconda sembra implicare oltre all’inibizione competitiva dell’acetilcolinesterasi anche una modulazione allosterica dei recettori nicotinici pre- e post-sinaptici che può determinare un aumento del rilascio di acetilcolina e di altri neurotrasmettitori. Somministrata in dose di 20-50 mg/die, migliora sia la capacità cognitiva che il comportamento e sembra avere effetti neuroprotettivi.
Gli effetti avversi riscontrati sono la perdita di peso nel 5% dei pazienti e la nausea associabile all’inizio del trattamento e all’aumento di dose ma che è comunque transitoria e raramente grave.
Pertanto, tutti e quattro i farmaci ad azione anticolinesterasica sono efficaci nel trattamento dell’Alzheimer lieve-moderato e vanno usati con cautela nei pazienti infartuati. 
Poco si conosce sui loro effetti a lungo termine ma si è constatato che il trattamento con essi, pur ritardandola, non ferma la progressione della malattia e ciò ha portato alla necessità di analizzare nuovi composti.
Quelli attualmente in fase di studio sono altri agenti colinergici, come la xanomellina, un agonista M1 e M2, ma anche agenti che hanno un diverso approccio farmacologico come la MEMANTINA (Namenda®), un NMDA antagonista non competitivo, che ha mostrato di rallentare la progressione in pazienti con Alzheimer moderatamente grave.
Un nuovo approccio terapeutico è derivato dall’identificazione a livello microscopico nel cervello dei malati di Alzheimer di due caratteristiche morfologiche distintive: i gomitoli neuro fibrillari intracellulari, costituiti dai filamenti ad elica appaiati formati dalla forma fosforilata della proteina tau associata ai microtubuli intracellulari, e le placche amiloidi o senili costituite dai depositi di proteina β amiloide (Aβ). 

Tali depositi sono più abbondanti nell’ippocampo e nelle regioni associative della corteccia (area viola: abilità linguistiche, aria verde: memoria, area rossa: capacità cognitive e mantenimento nuove informazioni), mentre le aree della corteccia visiva e motoria sono risparmiate e ciò coincide con le caratteristiche cliniche della malattia di grave compromissione della memoria e del ragionamento astratto in presenza di normali funzioni visive e motorie.

Sebbene, anche in individui intellettualmente normali siano osservabili un numero limitato di placche e gomitoli, essi sono notevolmente più abbondanti nel cervello di pazienti con Alzheimer e tale abbondanza è correlata grosso modo alla gravità della compromissione cognitiva, essendo più numerosi negli stati avanzati della malattia.
Tutto ciò ha suggerito che la formazione e la deposizione di placche e gomitoli possa avere un ruolo chiave nella patogenesi dell’Alzheimer e che ciò possa esser causato da un taglio anomalo della proteina β amiloide dal suo precursore, APP. Tale conclusione è nata dall’analisi genetica di famiglie con una rara forma di Alzheimer famigliare, nelle quali sono state scoperte mutazioni del gene per APP o di altri geni che controllano la sua degradazione e dall’evidenza che la localizzazione del gene per APP sul cromosoma 21 spiega la precoce demenza simil Alzheimer che si ha nella sindrome di Down nella quale tale cromosoma è espresso in duplice copia con conseguente aumentata espressione di APP.
Il precursore della proteina amiloide (APP) è una proteina di 677-670 amminoacidi, largamente espressa nel cervello, le cui funzioni non sono ancora del tutto chiarite anche se le sue caratteristiche strutturali (espressione sulla superficie cellulare con un unico dominio di transmembrana) hanno suggerito che possa essere un recettore di superficie per un non ancora ben identificato ligando che svolge normalmente un ruolo importante nella crescita e riparazione dei neuroni.
L’elemento più importante di APP sono i diversi passaggi della sua degradazione distinta in amiloidogenica e non amiloidogenica nella quale sono coinvolte tre proteasi, α, β e γ, la cui azione e specificità definisce il ruolo fisiologico o patogeno di APP.
La maggior parte delle molecole di APP sono tagliate in successione dall’ α secretasi e dalla γ secretasi dando luogo alla degradazione non amiloidogenica che porta ad un frammento P3 innoquo.
Dal taglio in successione della β e γ secretasi si origina invece un frammento amiloidogenico Aβ che è formato da 40 amminoacidi (Aβ40), se la γ secretasi taglia in posizione 711, e di 42 amminoacidi (Aβ42) se la γ secretasi taglia in posizione 713; quest’ultima forma ha una forte tendenza ad aggregarsi e va a costituire il maggior componente delle placche. Infatti, un aumento nella produzione di Aβ42 innesca l’accumulo di aggregati di questo peptide, del peptide Aβ40 e di altre componenti come i proteoglicani andando a formare le placche. Ciò attiva una risposta infiammatoria di microglia e astrociti con produzione di citochine e danno cellulare con alterazione dell’omeostasi ionica, maggiore sensibilità dei neuroni all’eccitotossicità e allo stress ossidativo con conseguente disfunzione neuronale. Inoltre, lo squilibrio nel bilancio tra chinasi e fosfatasi porta ad una iperfosforilazione delle proteine tau e ad un danno neuronale esteso, con compromissione dell’attività dei neurotrasmettitori, in primis acetilcolina, che provoca la demenza. 
Le mutazioni di APP nelle regioni in cui avviene il taglio operato dalle γ secretasi possono favorire la formazione di Aβ42 così come mutazioni nei geni delle preseniline 1 e 2 causano un aumento dell’attività delle γ-secretasi dato che tali proteine controllano l’accesso dell’enzima al dominio di trans membrana di APP; tutte queste mutazioni aumentano il rapporto Aβ42/Aβ40 che può essere rivelato nel plasma e serve come marker per l’Alzheimer familiare.
Anche mutazioni nel gene per l’apolipoproteina E4 sembrano predisporre all’Alzheimer probabilmente perché le proteine APO E4 anomale facilitano l’aggregazione di Aβ42 o perché possono provocare un aumento di incidenza di aterosclerosi con conseguente ipoperfusione e/o ischemia cerebrale. Infatti, l’ipoperfusione, causata da eventuali danni cardiovascolari, è considerata in base a studi epidemiologici, un  fattore di rischio in quanto riducendo l’apporto di O2 induce disfunzione mitocondriale che da un lato porta alla formazione di radicali liberi e all’istaurarsi di un processo infiammatorio, dall’altro riduce la produzione di ATP con disfunzione dei processi che richiedono energia: il tutto porta a una neurodegenerazione.
Data l’importanza che hanno questi meccanismi è sotto studio una STRATEGIA TERAPEUTICA ANTIAMILOIDE con diversi possibili bersagli: innanzitutto si è pensato di attaccare la degradazione di APP con composti inibitori delle β e γ secretasi e attivatori delle α secretasi, così come si è pensato all’immunoterapia per attaccare gli aggregati Aβ. Nel 1999 Schenk ha mostrato che immunizzando un topo con una iniezione cronica di Aβ umana, si poteva prevenire la formazione di depositi di tale proteina, mentre se l’immunizzazione veniva eseguita dopo che la deposizione di Aβ era già avvenuta (attraverso immunizzazione passiva con anticorpi contro Aβ) si poteva indurre una riduzione delle placche.
Si è pensato, inoltre di usare le statine, essendo il metabolismo del colesterolo coinvolto nella generazione di Aβ, oppure avere un approccio neuroprotettivo che ha  come bersaglio quei meccanismi secondari all’aggregazione di Aβ, ad esempio impiegando farmaci antinfiammatori non steroidei o la vitamina E come antiossidante. Infine si è ipotizzato l’uso di FIBROBLAST GROWTH FACTOR 2 per stimolare lo sviluppo di nuovi neuroni da cellule staminali sempre presenti nel cervello così da agire nella malattia con ripristino dell’attività neuronale.
Oltre alle molecole e strategie di intervento delineate, sono state variamente proposte altre ipotesi di intervento farmacologico, con evidenze cliniche di efficacia però ancora insufficienti o non confermate. Tra esse, una ipotesi complementare di approccio alla patologia è quella legata all’uso di FANS, visto che nell’Alzheimer è presente una dinamica infiammatoria che danneggia i  neuroni. Si è anche notato che le donne in cura post-menopausale con farmaci estrogeni presentano una minor incidenza della patologia (infatti gli estrogeni bloccano la morte neuronale indotta dalla proteina beta-amiloide). Alcuni ricercatori avrebbero messo in evidenza anche la potenziale azione protettiva della vitamina E
(alfa-tocoferolo), che sembrerebbe prevenire la perossidazione lipidica delle membrane neuronali causata dal processo infiammatorio; ma ricerche più recenti non hanno confermato l'utilità della vitamina E (né della vitamina C) nella prevenzione primaria e secondaria della patologia, sottolineando anzi i potenziali rischi sanitari legati all'eccessiva e prolungata assunzione di vitamina E.
Sul processo neurodegenerativo può intervenire anche l'eccitotossicità, ossia un'eccessiva liberazione di acido glutammico che induce un aumento del calcio libero intracellulare, il quale è citotossico. Si è quindi ipotizzato di usare farmaci antagonisti del glutammato, come ad esempio inibitori dei recettori NMDA, ma anche questi ultimi presentano notevoli effetti collaterali.
Sono presenti sul mercato farmaci NOOTROPI, per definizione molecole che hanno effetti positivi sulla mente, come il Piracetam (Nootropil®): questo farmaco è in grado di stimolare il recettore metabotropico AMPA dell’acido glutammico; anche se questo parrebbe in netta contrapposizione a quanto detto sopra, si deve tenere presente che comunque tale neurotrasmettitore è direttamente implicato nei processi di memorizzazione e di apprendimento per cui è stato ipotizzato che aumentandone la quantità si possa contribuire a migliorare i processi cognitivi. Anche in questo caso, l'evidenza clinica di efficacia è scarsa.
Ultimo approccio ipotizzato è l'uso di Pentossifillina e Diidroergotossina i quali sembrano migliorare il flusso ematico cerebrale, permettendo così una migliore ossigenazione cerebrale, e un conseguente miglioramento delle performance neuronali. Sempre per lo stesso scopo è stato proposto l'uso del Gingko biloba.
Gli studi pionieristici di Rita Levi Montalcini hanno portato alla scoperta, caratterizzazione e purificazione del fattore di crescita nervoso (Nerve Growth Factor, NGF), una proteina essenziale per lo sviluppo e la sopravvivenza di cellule nervose. L’NGF fa parte di una famiglia di recettori neutrofici, le neutrofine, che sono coinvolte non soltanto durante lo sviluppo del sistema nervoso, ma anche in molteplici aspetti fondamentali della fisiologia del sistema nervoso adulto. Il suo uso terapeutico è quindi basato sul fatto che le cellule neuronali colinergiche, che degenerano nella patologia di Alzheimer, sono cellule bersaglio del NGF. La somministrazione della molecola NGF per via oculare, resa possibile dall’esistenza di una connessione anatomica tra cervello e sistema oculare, rappresenta una nuova strategia, non invasiva e in grado di aggirare la barriera cerebrale ma ancora tutta da scoprire.
Anche una terapia genica potrebbe alleviare i problemi di memoria legati alla malattia di Alzheimer: gli scienziati dell’Gladstone Institute of Neurological Disease di San Francisco hanno scoperto che incrementando nei topi la quantità di un neurotrasmettitore chiamato EphB2 si riuscirebbe a prevenire o impedire gli effetti sulla perdita di memoria provocati dalla patologia. Modificando il DNA con un gene che stimola la molecola, la capacita' cognitiva dei topi si e' dimostrata più efficiente, mentre riducendola si affievoliva. Lennart Mucke, autore dello studio pubblicato su Nature, spiega il meccanismo: ''Pensiamo che bloccando la proteina amiloide nel legarsi con EphB2 e migliorandone i livelli e la funzionalità anche attraverso un farmaco, si potrebbero offrire benefici per la malattia di Alzheimer''.

BIBLIOGRAFIA
  • Goodman & Gilman Le basi farmacologiche della terapia Mc Graw Hill ed
  • Rang Y Dale Farmacologia Elsevier ed
  • Katzung Farmacologia Generale e Clinica Piccin ed.
  • Foye, Lemke, Williams Principi di chimica farmaceutica Padova ed.
  • Appunti di lezione della Professoressa Tita
  • Appunti di lezione della Professoressa Ziche
  • Struttura delle molecole www.wikipedia.it
  • http://parkinson.musiogianfranco.it/Malattia%20di%20Alzheimer.pdf 

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